Arte

L’arte “altra” di Henri Rousseau

Il presente scritto si deve aprire celebrando le lodi di Gabriella Belli, la persona che lungo anni di testarda e intrepida insistenza è riuscita a convincere la Provincia di Trento a erigere il Museo d’Arte di Rovereto e Trento, il MART, dandone poi una buona conduzione. Così non si può dire invece per chi è stato chiamato a continuarne l’opera, Cristiana Collu, imputabile di un quasi totale flop. Passata a dirigere i Musei del Comune di Venezia, la Belli di nuovo sta dando buona prova attraverso la giusta idea di realizzare un’unità d’azione con Guy Cogeval, il potente direttore del parigino Musée d’Orsay. Anch’io gli devo rivolgere qualche riconoscimento, due anni fa ha avuto il coraggio di proporre i nostri Macchiaioli come possibili “Impressionistes italiennes”, seppure mettendo il punto interrogativo al seguito di questa ardita proposta, e declassando la mostra all’Orangerie, non ritenendoli cioè del tutto degni di accedere alla gloria maggiore dell’Orsay. Ma aveva pure accettato che io andassi in loco a dichiarare che era ora di togliere il punto interrogativo. Fattori e Lega sono impressionisti, o no? Se li si toglie dalla lista, bisogna togliere pure i loro dirimpettai Manet e Degas, facendo il vuoto attorno al solo e solito Monet. Continuando nelle caute lodi di Cogeval, i pochi che mi leggono avranno trovato una recensione entusiastica della mostra che sempre l’Orsay dedica in questi giorni a Pierre Bonnard, anche se, nella bibliografia del catalogo, invano si cercherebbe un mio contributo, a suo tempo lodato proprio da Cogeval, ma con la pecca di essere scritto in una lingua ostica ai francesi come l’italiano, che pure è la lingua materna dello stesso Cogeval.
Ma torniamo alla felice collaborazione tra lui e la nostra Belli, già espressa proprio attraverso una mostra dedicata a Manet, ora culminante in un omaggio dedicato al caso ben più difficile e poco perlustrato del Doganiere, Henri Rousseau, per cui i due sono riusciti a raccogliere un nutrito numero di opere, mettendole pure a confronto con tutta una serie di artisti per un verso o per un altro riconducibili a lui, lo sapessero o no. Naturalmente, il comune denominatore è stato, in tutti i casi, la ripulsa nei confronti dell’arte “colta”, condotta secondo le bune regole della tradizione e del mestiere, accedendo invece ai vari richiami del primitivismo, infantilismo, delle manifestazioni di soggetti non acculturati, estranei al sistema delle belle arti, come fu proprio il caso del Doganiere. Ma da questo confronto, abbondante e in genere pertinente, emerge un dato fondamentale. Tutti i “primitivi” per procura o per adesione ragionata e consapevole sono rimasti impigliati in un dato da cui invece prescindono le soluzioni del Nostro. In un modo o nell’altro, pur violando i codici affermati, ciascuno di loro si è rifugiato in un proprio codice, o del gruppo in cui militava, ricadendo insomma sotto il controllo della forma. Hanno sentito la necessità di scegliere, di procedere in modi omogenei rispetto a un ideale assunto. Quello che invece caratterizza il Doganiere, è di essere stato libero da questi condizionamenti, di aver professato un gioioso e disinibito polistilismo, pronto a prendere il suo bene dovunque gliene venisse la voglia. Libero, si badi, perfino nei confronti dei cosiddetti naïfs, o dei “bruti”, per dirla col termine che poi Dubuffet sarebbe venuto a rendere d’obbligo. I “bruti”, se andiamo a vederli, risultano prigionieri di qualche modulo in cui si rivelano le loro turbe psichiche, per esempio riempiono l’opera di motivi stereotipati, replicati all’infinito, di figure schematiche, sempre uguali. Invece il Nostro muta ad ogni passo, saccheggia tanto il passato quanto il presente e l’attualità. Rivisita il Louvre, ma si impadronisce anche della cronaca dei suoi giorni, frequenta lo studio di qualche fotografo intento a immortalare, coi tempi lunghi concessi dalla tecnica del tempo, coppie matrimoniali, o gruppi familiari, o candide gite in calesse per i campi della più dimessa realtà contadina, che però a un tratto sono invasi da selve lussureggianti, abitati da belve, ma queste a loro volta cedono a un codice affabile e quasi ci strizzano l’occhio. Il banale-quotidiano si mescola con certe forme nobili rubate al museo, dando luogo a fusioni sempre imprevedibili, sempre eteronome, verrebbe quasi da dire eterologhe, nate dalla conciliazione di tanti DNA sottratti a ceppi biologici diversi. Una volta tanto, i sottotitoli usati nell’occasione risultano giustificati, come per esempio parlare di un “candore” che però prende la via di soluzioni “arcaiche”, cioè imparentate con il museo. Ed è pure giusto parlare di un “autodidatta” che però è nello stesso tempo “accademico”, che cioè non teme di accostarsi pure all’accademia, di assidersi al tavolo delle soluzioni più nobili e maestose. Anche per questo verso, gli artisti delle varie avanguardie non sono stati liberi o eclettici come lui. O hanno giocato la carta del futurismo, o quella del passatismo, ma una alla volta, per carità. Questa strategia del mescolare le carte, del saltabeccare da un estremo all’altro, è stata interamente sua. Lo hanno capito i migliori esponenti delle avanguardie del primo Novecento, rapiti, estasiati da questo esempio, che però sentivano “altro” rispetto ai sentieri da loro stessi battuti. E forse in tutto ciò sta una sorprendente attualità del Doganiere. Oggi dovremmo ripetere il detto famoso di Mallarmé, “j’ai lu tous livres”, volgendolo beninteso all’arte, “nous avons peint tous tableaux”, in cui ci stanno anche i ready-made, le installazioni eccetera, e dunque, non ci resta che intraprendere questa via “altra”, o polistilista, o eterologa al massimo, cui appunto il Doganiere ci invita. Uno che questo l’ha capito, in qualche misura, forse è Martial Raysse, anche se poi ne fa un pessimo uso, ma andrò a vederlo la prossima volta.
Henri Rousseau. Il candore arcaico, Venezia, Palazzo Ducale, fino al 5 luglio, Cat, Sole24ore.

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