Arte

Maria Lai: la rivincita dell’arte al femminile

Avvalendomi ancora una volta della facoltà concessami dal blog di condurre visite virtuali, anche fuori tempo, oggi mi reco a visionare un Docufilm già proiettato qualche tempo fa ad Amalfi, volto a rendere omaggio a una figura di artista donna straordinaria, Maria Lai (1919-2013), a lungo trascurata quando era in vita, forse perché fuori dai sentieri più battuti dalla critica ufficiale, attaccata com’era alla sua Sardegna natale, dove se ne stava “inventata da un Dio distratto”. Ma poi, a partite da questo inizio di secolo, l’opinione pubblica si è accorta di lei, e per esempio il duo Francesca Pasini-Giorgio Verzotti l’ha posta al centro di una mostra molto opportuna, al MART, nel 2003, intitolata al “Racconto del filo”, dove appunto questa personalità fin lì ritenuta secondaria e marginale veniva posta invece al centro dell’attenzione, e da quel momento partiva pure il mio personale riconoscimento che rivolgevo a quella mostra così azzeccata in una recensione sull’”Unità”, dove mi potevo anche compiacere che accanto a Maria come protagonista principale figurassero pure dei giovani comprimari già da me accolti in mie rassegne, o che stavano per esserlo: Claudia Losi, coi suoi gomitoli multicolori, ne “La giovine Italia”, e Angelo Filomeno, davvero sarto in quel di New York, da me selezionato in “Officina America”, 2002. Molto indicativo il volto ufficiale con cui Maria usava presentarsi, intenta a intrecciare alcuni fili, in un primo abbozzo di tessitura, destinata poi a ripetersi, a infittirsi, a divenire inglobante. E dunque, alla base della sua procedura stava un gesto di collegamento, e non invece di netta e recisa separazione, come per esempio quello che è solito praticare Emilio Isgrò, con le sue cancellazioni, cui sono reduce dall’aver rivolto, sull’”Unità” del 24 luglio scorso, una recensione “agrodolce”, come l’ha definita l’amico Tommaso Trini, dove il dovuto riconoscimento era però limitato da un avvistamento di taluni limiti. Ma diciamo pure che una comparazione tra il gesto di Isgrò e quello della Lai ci riporta in pieno alla questione sessista, Isgrò procede con protervo maschilismo. Non per nulla, nell’imporre i suoi interventi perentori e assolutisti, osa assumere il ruolo di un “Cristo cancellatore”, cioè un diritto di demiurgo, volto appunto a escludere, a frammentare. Un Dio così concepito risponde a una istanza dura, inflessibile, punitiva, come lo era secondo la tradizione del Vecchio Testamento, o invece è anche donna, come ha avuto il coraggio di ricordare Papa Luciani, nella meteora del suo pontificato, in cui tuttavia gli è stato possibile predicare la grande verità? E dunque, accanto a un Dio che cancella ed esclude, da perfetto rappresentante del maschilismo, ci può essere una istanza paritetica ma volta al femminile che include, allaccia, connette. Come sono proprio i fili di Maria Lai, a costo di divenire simili a una vegetazione quasi parassitaria che invade le pagine dei sacri testi ricoprendole come di una fine peluria. In proposito ci sta bene un riferimento alla nozione di rizoma, tanto predicata dal duo Deleuze-Guattari. In luogo di interventi dall’alto, come quelli di Isgrò, che in genere condannano, escludono, separano, limitandosi a salvare solo qualche spezzone di discorso, ma concedendolo quasi per atto di grazia insindacabile, forse è bene che ci sia invece una presa in carico, un tentativo di rendere vitali le parole, i discorsi, di avvolgerli con un supplemento di vitalità, facendoli rientrare in un circuito organico, quasi che la vita riprendesse una sua rivincita sul regno dell’artificio. Non entro qui in una minuta analisi delle mille soluzioni e invenzioni con cui la tenace artista sarda ha condotto la sua opera universale, comunque intesa a riportare i nostri prodotti della mente a una base di ordine vitalista, genetico, biologico.

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