Arte

Mattia Moreni: un catalogo necessario

Ho sul tavolo il monumentale “Catalogo ragionato dei dipinti di Mattia Moreni, 1934-1999”, quasi mille pagine, un’opera assolutamente necessaria per rilanciare la fama di uno dei nostri maggiori protagonisti nel secondo Novecento, attualmente oscurata per ragioni che andrò a vedere. La produzione di quest’opera si è retta su tre punte: la seconda moglie dell’artista, la devota, costante Poupy Prath, che lo ha seguito dai ruggenti anni di Parigi fino alle dimore isolate e selvagge in terra romagnola; Franco Calarota, che dalla bolognese Galleria Maggiore ha profuso soldi ed energie nell’impresa, e soprattutto il curatore, Enrico Crispolti, con la sua ben nota tenacia di archivista principe di quei fatti ed eventi, assicurando una presenza capillare in cui mi ha preceduto, per quell’anno di vantaggio nella nascita, 1934 rispetto al mio 1935, il che gli ha permesso di essere presso di noi il più pronto ed efficace introduttore dei fatti relativi alla stagione dell’Informale. Fummo in leale ed amichevole gara sulle pagine dell’appena nato “Verri”. Io semmai puntavo di più sui francesi come Fautrier e soprattutto Dubuffet, nei cui confronti avevo già dichiarato una mia “lunga fedeltà”. Enrico coltivava una visione più ampia che comprendeva anche Fontana e Burri, su cui invece io non mancavo di manifestare qualche dubbio e riserva. Ma proprio la presenza di Moreni ci trovava del tutto concordi, nel sostenerne la causa, e abbiamo sempre proceduto in tal senso con piena solidarietà. Mi è già capitato altre volte di segnalare le ragioni che provocano l’attuale calo di popolarità di questo artista, sulla nostra scena. Ciò dipende, prima di tutto, da una stitica, anoressica aderenza di tanta parte della nostra critica al fallace detto del Movimento moderno secondo cui “less is more”, con il sostegno accordato a tutte le manifestazioni del monocromo, si pensi a un caso come Ettore Spalletti, e perfino per il grande Burri senza dubbio la ragione del grande successo decretatogli deriva dal vedere in lui soprattutto il compilatore dei candidi cretti e cellotex, come del resto era anche sua profonda convinzione. In definitiva, le tele di sacco e combustioni e lamiere venivano considerate da lui, come pure oggi da tanta parte della critica, alla stregua di episodi marginali e impropri. E anche per Fontana ci si sdilinquisce per i noiosi e ripetitivi tagli, mentre magari si trascura la sua “carriera barocca”, per citare anche a questo proposito un giusto contributo di Crispolti, cioè le ceramiche deliranti ed esplosive modellate da questo artista negli anni ’30. Ma, superata la fastidiosa prevenzione a favore del riduzionismo, ecco pararsi un altro ostacolo: non piace, non convince chi muta stile in corso d’opera, si preferiscono gli artisti che offrono di sé un’immagine costante, come è per esempio nel caso di Emilio Vedova, un artista per tanti versi da vedere in parallelo a Moreni, per una loro comune entrata in campo in anni giovanili, per un attraversamento della fase postcubista e astratto-concreta, pervenendo infine, con massimo impatto, nell’Informale più sconvolgente ed esagitato. Ma Vedova, in definitiva, pervenuto in quella valida casella, vi ha sostato fino alla fine, svolgendovi senza dubbio delle varianti efficaci, ma in un sostanziale “piétiner sur place”, e magari concedendo anche lui a un minimalismo, se non altro di tavolozza, gradito ai modernisti vecchi e nuovi, il che ha consentito a Germano Celant, superata la sua iniziale ritrosia verso tutti gli Informali, a farsi carico per un catalogo generale dell’artista veneziano, cosa che non avrebbe mai fatto nei confronti del Nostro. Il quale invece ha continuato a muoversi, con quelle sostanziose mutazioni di cui il presente catalogo dà testimonianza “ad horas”, registrando una sorta di enorme colata lavica nel suo muoversi, nel suo scorrere, e nell’andare ad assumere sempre nuove fisionomie. E dunque, assistiamo all’uscita dalla fase informale verso la ricomparsa di oggetti, plasmati dal fango e dalla cenere come da un Dio ai primi giorni della creazione, il che è stato da me testimoniato in un saggio del 1964, “Moreni dipinge oggetti”, ampiamente menzionato nel presente volume. Gli oggetti erano soprattutto angurie, che, squarciate da una fenditura, quando troppo mature, diventavano i genitali femminili, visti come cespugli vorticosi, come mari dei Sargassi, come polipi aggressivi. Ma proprio sui corpi vili delle angurie, diffusi nelle colture romagnole, Moreni dovette prendere nota dell’intervento della tecnologia, che ne faceva degli “organi geneticamente modificati”, e questa in rapida sintesi divenne la stella polare del suo ancora lungo cammino, rivolto proprio a misurare l’immane conflitto tra residui umani-organici e tutti gli aberranti innesti che su di loro andava facendo l’avanzamento tecnologico. Il tutto redatto in manifesti, in tatzebao, in cartelloni didattici, in cui il fascino, la maestria del gesto pittorico si continuano e si integrano con i tratti di una scrittura corsiva, a sfida proprio dei Writers, dei Graffitisti che dagli ’80 sarebbero sopraggiunti dagli USA. In questo rapido mutare di pedale e adeguarsi agli umori del tempo, e ritornando alla compagine dei maestri dell’Informale, il nostro Moreni trova un solo dirimpettaio valido, Jean Dubuffet, anche lui sempre pronto ad afferrare i suggerimenti del momento e a impiantarli sul vecchio tronco di una pianta portandola a emettere nuovi rami e fronde. La Fondazione Beyeler di Basilea ha appena terminato una maestosa retrospettiva dedicata al Francese, c’è da auspicare che voglia ripetere l’impresa anche per il Nostro, che del resto può ben essere officiato come un padre putativo di tutti i Nuovi Selvaggi tedeschi.
Mattia Moreni, Catalogo ragionato dei dipinti 1934-1999, a cura di E. Crispolti, Silvana Editoriale, pp. 887.

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