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MUDEC e PRADA: il bene e il male

Dopo aver lodato le due mostre che il Comune di Milano ha organizzato al Palazzo Reale, pur con qualche appunto ma nel quadro di un consenso di massima, devo invece esprimere parecchie riserve quanto al MUDEC. Al Museo delle Culture, non tanto per l’operazione edilizia. E’ giusto aver utilizzato uno stabilimento dimesso, l’ex-Ansaldo, giusto averne affidato la ristrutturazione all’architetto David Chipperfield, che oltretutto ha fornito per l’occasione un progetto intonato alle sinuosità proprie del postmoderno, uscendo dal rigore che di solito più gli appartiene. Poi, si sa, il progettista non ha accettato alcuni particolari dell’esecuzione, pretendendo che il suo nome fosse depennato, con decisione che invero mi sembra troppo drastica e punitiva verso gli stessi meriti di questo professionista. Ma la destinazione a museo delle culture di tutto il mondo è troppo ambizioso, o solo sostenibile se Milano già avesse una abbondante dotazione in proposito, il che non pare, visto che per la prima rassegna, dedicata all’Africa, mi sembra che si sia dovuti andare in prestito per ogni dove di preziose statuette e idoli e cimeli di ogni epoca, con costi che suppongo elevatissimi. Molto più appropriata l’altra rassegna, dedicata alle mostre con cui il capoluogo lombardo, in un certo senso, ha anticipato l’Expo, dove appaiono cose molto valide a livello di arti decorative, relative alle gloriose stagioni del Liberty e dell’Art Déco su su fino agli anni Trenta. Ma allora, perché non fare un museo permanente appunto delle arti applicate, liberando da questo compito la Triennale? Però forse meglio ancora tornare al primitivo proposito di collocare in questo museo il seguito del Museo del Novecento in piazza del Duomo, dove i capolavori della grande stagione futurista se ne stanno sacrificati, schiacciati dalle colonne che ne impediscono una giusta contemplazione, e poi si sa che quella esposizione si ferma ai primi anni Settanta, mentre siamo già proceduti avanti di quasi mezzo secolo. E Milano si può vantare di essere la grande capitale del collezionismo delle arti avanzate, aperto ai giovani, cui invece altre sedi sono chiuse, come dirò tra poco a proposito della Fondazione Prada. Spero dunque che ci sia un ripensa,mento, e che il MUDEC, come si pensava in precedenza, possa davvero diventare il museo della ricerca artistica, o magari anche del design, aperto a sondare il XXI secolo ormai in pieno svolgimento.
Confesso invece che l’insediamento della Fondazione Prada mi ha alquanto deluso, in primo luogo per la sua mancanza di organicità. Infatti è costituito da una piastra nuova di zecca, affidata a un architetto del tutto estraneo ai lieviti del postmoderno, fermo a un rispetto del Movimento moderno degno di altri tempi, Rem Koolhaas. Quella scatola rigida e iper-razionale stona, essendo inserita quasi a forza in un contesto fatto invece di vecchi caseggiati di periferia, del buon tempo antico, come di fattorie della campagna, il che consente una articolazione di usi, ma fin troppo, obbligando il visitatore a una complessa deambulazione, dentro e fuori spazi disseminati, questo appunto in contraddizione con lo spettacolo troppo concentrato fornito dalla stecca centrale. E forse non del tutto felice mi pare anche l’idea cui questo contenitore principale è stato destinato in questa prima uscita, seppure affidata a un perfetto conoscitore in materia archeologica quale Salvatore Settis, il quale ha voluto sviluppare il tema dell’arte multipla, dei rifacimenti, dei calchi, delle copie ulteriori così come questi sono esistiti in tutti i secoli della classicità greco-romana, non si creda che siano solo il frutto di pratiche recenti. Ma quei facsimile troppo lustri, e soprattutto esposti in modo decontestualizzato, danno l’impressione di stare là per rendere omaggio a Giulio Paolini, o a Vanessa beecroft, pare cioè di essere ammessi a una enorme rassegna di questi due cultori, nei nostri anni, della poetica della citazione. Per il resto, negli altri padiglioni, più articolati e suggestivi, si ammira una sapiente, perfetta, fin troppo presentazione di tutti gli iscritti nel gotha dei valori internazionali, non uno escluso, e anche gli artisti italiani ci stanno dentro solo nella misura che siano già stati immessi nel pantheon dei valori acquisiti, in modo che Celant e con lui la squadra intera dei “curators” si sentano in obbligo di citarli e inserirli devotamente, attenti a non sbagliare. E la coppia dei Prada, Miuccia e il consorte Bertelli, naturalmente sono rigorosi adepti di questo rito, anche loro mossi dal timore di sbagliare, di fare qualche malo acquisto. Ma Celant di sicuro vigila e li bacchetterebbe se cadessero in qualche errore. Come forse il patron Berteli commetteva a inizio di carriera quando osava acquistare un artista sporco, intimista, onusto sotto il gravame di materismi inconsulti, come Mario Cavaglieri. E perfino un artista molto più avanzato e vicino a noi quale Eliseo Mattiacci, un tempo nelle grazie dei Prada, pare che oggi sia considerato sconveniente. Trovo del tutto ingiustificata e risibile la proposta avanzata proprio oggi da Michele Dantini su Artribune che la Fondazione Prada, nei due volti, il milanese, e il veneziano che a dire il vero al momento non ho ancora visitato, venga considerata come costituente l’autentico Padiglione Italia, Li si definisca piuttosto quali padiglioni eretti al culto di tutti i vincitori internazionali, da cui la “giovine Italia” completamente assente. Per questo a un compito del genere si dovrebbe dedicare il MUDEC, trovando in ciò una giusta funzione.

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