Letteratura

Pincio sfida Flaiano

Tommaso Pincio appartiene a quell’ondata felice di narratori della fine del secolo scorso che Nanni Balestrini e io stesso, con l’aiuto di Giuseppe Caliceti, abbiamo avuto il piacere di ospitare agli incontri reggiani di RicercaRE, Coglievamo però la sua diversità dalla media degli altri, che insistevano sulla ordinaria follia quotidiana del nostro vivere in quell’epoca, mentre lui si avventurava per le vie della fantascienza. Fummo però abbastanza colpevoli nel dare troppo peso a quella sua diversità dagli altri, così da non includerlo nell’ antologia che raccoglieva i membri più tipici di quel gruppo, Narrative invaders, forse proprio perché lui non era un in-vader, ma semmai un e-vader, tendente a evadere verso esperienze insolite. Lo testimonia molto bene un’opera come Lo spazio sfinito, con quell’aggettivo che rende in modo appropriato il senso di un andare oltre ogni limite e perimetro. Poi è venuto un capolavoro assoluto, Cinacittà, di una fantascienza resa il più possibile verosimile, tangibile, dove finalmente c’erano proprio degli invaders, consistenti nel proverbiale pericolo giallo che si impadronisce delle vie di Roma. C’era sempre in Pincio una vena di humour a rendere accettabili i suoi teoremi spaziali, come per esempio Hotel a zero stelle, dove il paradosso, la sfida all’impossibile sta nell’immaginare un hotel tanto degradato da doversi dire appunto a zero stelle, dove fra l’altro, altra saporita invenzione, si serve un caffè “concettuale”, in tazze del tutto vuote. Quel “concettuale” viene dalla terminologia dell’arte contemporanea, infatti Pincio non ha mai nascosto di prestare servizio in una modesta attività di impiegato in una galleria di super-avanguardia. Questa circostanza però alla fine gli ha dato alla testa, o meglio, in lui è  intervenuta una mutazione stilistica, ha deciso di non affidare più il suo destino di scrittore a fantomatici viaggi spaziali, bensì a circostanze a lui vicine. Il fatto che la galleria in cui lavorava fosse nei pressi dei luoghi dove il Caravaggio aveva commesso il tragico delitto che lo aveva obbligato ad andarsene da Roma in penoso esilio aveva ispirato a Pincio Il dono di saper vivere, con un gioco di specchi tra la sua effettiva esistenza e quel convitato di pietra che diveniva il Merisi. Ora, continuando su questa strada di fare da sé, di meritarsi un titolo di eccellenza in proprio, ma coabitando con qualche presenza illustre, ha deciso di misurarsi con l’ombra di Ennio Flaiano, di cui è ben noto il paradosso del Marziano a Roma, che dopo pochi giorni vede scomparire il carattere di eccezionalità della sua presenza e diviene quasi insopportabile per una città abituata ad assorbire in sé ogni evento straordinario. Ecco così questo Diario diun’estate marziana, in cui Pincio si misura ad ogni passo con quell’ingombrante presenza, col talento debordante, extra-vagante di quell’autore, di cui segue le orme in tutti i sensi, raccogliendone le battute, le vicende biografiche, le modalità di esistenza. Una vicinanza per un verso affascinante, e anche utile per una puntuale ricostruzione biografica del grande scrittore, ma anche debordante, eccessiva, in quanto in definitiva lascia poco spazio di autonomia in proprio a Pincio stesso. E’ come un gioco di specchi, dove la maggior parte dello schermo è senza dubbio occupata da Flaiano, ma dove il più giovane seguace tenta anche di insinuare la propria immagine, di procurarsi una presenza, a ricalco, o anche a parziale sfida del grande protagonista evocato ad ogni passo, come un fantasma che poi si stenta ricacciare dalla scena per ritrovare un proprio margine di autonomia. Ovvero Aladino si rifiuta di rientrare nella lampada, un volta evocato.

Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana, Giulio Perrone Editore, pp. 177, euro 16.

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