Il 2018 è cominciato male portando la morte di Mauro Staccioli (nato nel 1937), figura generosa e sempre pronta a entrare in azione. Anch’io non posso mancare di dedicargli un commosso ricordo, insistendo sulle occasioni, sempre felici, di incontro con lui. E’ stato un artista particolarmente adatto a realizzare sculture all’aperto, fidando su una agile struttura metallica di cui le dotava, e di un rivestimento con intonaco per lo più di un colore terroso, sanguigno. Agevolava senza dubbio questa sua prontezza di intervento una certa limitatezza nelle soluzioni formali, consistenti soprattutto in solidi essenziali, primo fra tutto il cerchio, che tendeva libero e gioioso nello spazio, come un ragazzo che gioca appunto al cerchio e lo fa scorrere di balza in balza. Per questa sua prontezza a occupare lo spazio aperto mi sono permesso di dedicargli una battuta, quando tra esperti si usa discutere di come definire l’entità, sempre più diffusa, che si usa dire di un parco di sculture all’aperto. Io mi sono permesso di osservare che la soluzione è semplice, basta riferirsi a un qualche spazio dove ci sia almeno un’opera del nostro Staccioli, tanto il suo modo di agire si identifica con una simile finalità. Fughiamo subito un sospetto, che questa sua essenzialità di figure geometriche, per lo più riferite a solidi regolari, fosse inevitabile vederla come una conseguenza del Minimalismo statunitense. Chi gli attribuisce una simile discendenza ignora un glorioso capitolo di figure solide nello spazio che qui in Italia abbiamo avuto proprio agli injzi degli anni ’60, soprattutto a Roma, con artisti come Lo Savio, Carrino, Uncini. E forse proprio con quest’ultimo è più evidente un nesso di affinità, che contribuisce ulteriormente ad allontanare il sospetto di una derivazione minimalista, in quanto gli statunitensi usavano più che altro un materiale metallico lasciato scoperto, mentre nel caso di Staccioli interviene quasi sempre un rivestimento, come detto sopra, che rimanda a un sentore di buona terracotta, quasi a voler ristabilire un rapporto di discendenza dall’arte etrusca di cui, lui nato a Volterra, si è sempre considerato un orgoglioso discendente. Quando nel ’93, d’accordo con l’amico Fabio Cavallucci, abbiamo pensato di far nascere a Santa Sofia, in Provincia di Forlì e ai piedi della diga di Ridracoli, sulle rive del Bidente, un parco di sculture all’aperto, stante la definizione di cui sopra, abbiamo ritenuto di dover cominciare appunto nel nome di Staccioli, magari, per scarsità di budget, non facendogli creare una struttura ad hoc ma acquistandola bell’e fatta da un precedente collezionista. Ed ecco arrivarci tre bellissimi dischi, quasi gigantesche forme di caciotta, provvisti di una sapiente stagionatura, bloccati in una ruzzola travolgente lungo i fianchi di un parco pubblico di quella città. Grato di quel nostro segno di apprezzamento, Staccioli ci ha poi invitato, pochi anni dopo, ad assistere a quello che forse è stato il suo massimo exploit, quando è riuscito a far nascere, in pochi giorni, nella cittadina sarda di Tortolì, ma più nota per il bellissimo porto, Arbatax, e i suoi marmi rosati, una intera selva di queste sue costruzioni, pronte a moltiplicarsi, e a variarsi quasi consultando un albo di pronta e accogliente geometria. Ricordo quanto fu simpatico atterrare. pur con un volo regolare di linea, in quella minuscola località, dove gli amici dei viaggiatori venivano ad accoglierli al bordo della pista in costume da bagno. Naturalmente, nel vasto territorio dell’Ogliastra, dove Tortolì è situata, quei suoi cerchi e spuntoni erano appena dei brufoli, dei bitorzoli, ma arditi, significativi. Una ulteriore occasione di rivolgermi a lui fu quando il Dipartimento delle arti visive dell’Università di Bologna ha occupato un ex-convento, il S. Cristina dove tuttora è stabilito, dotato anche di un ampio parco. Io, più volte direttore di quell’istituto, ho invitato gli amici artisti a ornarne le pareti, e fin qui tutto bene, ma non potevo certo dimenticare di fare appello al genio così ad hoc del nostro Staccioli, che infatti, con l’aiuto di una galleria padovana, mi fece avere un consistente concentrato di un’altra sua tipologia, una serie di cippi, di parallelepipedi mozzi, quasi una piccola Stone Henge da far sorgere in luogo appropriato. Pare incredibile a dirsi, ma anche in un momento in cui la sua fama era ormai saldamente stabilita ci fu una collega che si sentì offesa e fece crescere un roseto per nascondere alla vista quella serie di corpi provocanti nel loro francescano rigore. Ma purtroppo a bloccare l’operazione intervenne la ragione del vile quattrino, infatti l’Ateneo di Bologna gode di un’assicurazione automaticamente estesa a tutte le opere che si trovino all’interno delle sue stanze, mentre si deve pagare per quelle esterne, nessuno si assunse l’onere di quel balzello, e dunque i monoliti del Nostro tornarono a casa. Ma questa è stata appena una increspatura, tutta a torto dell’Alma mater, in quanto Staccioli trionfa ovunque qualcuno abbia osato puntare sulla formula del parco di sculture all’aperto.