Arte

Agnetti, artista capace di ogni “oltraggio”

Sono stato molto amico e instancabile sostenitore di Vincenzo Aggetti (1926-1981), fin da quando agli inizi dei ’70 aveva deciso di entrare in campo, dopo una fase di attesa e anche di parziale dispersione. Tanto che quando, fine anni ’80, mi trovai ad avere un particolare potere presso il Comune di Milano, retto da Carlo Tognoli, all’ombra del Garofano, tentai di dedicargli una retrospettiva, per esempio alla Besana, allora datami quasi in appalto proprio da quel sindaco, che è rimasto tra i più amati dai Milanesi. Ma allora me lo impedì la vedova, Bruna Soletti, convinta che fosse troppo presto per commemorare il marito e che gli giovasse attendere con pazienza la sua ora. Questa finalmente sembra venuta, infatti in una suite di stanze sul fianco di Palazzo Reale il percorso di Vincenzo si dsipiega al completo. Peccato che io non sia stato inserito nel comitato organizzatore, guidato dalla figlia Germana, e certo con colleghi ferrati e degni quali Bruno Corà, Marco Meneguzzo, Giorgio Verzotti. Io ho sempre combattuto la mia battaglia in suo onore, nelle mie incessanti reprimende verso Germano Celant, con l’ammonizione a non pretendere di portar via l’intero piatto degli esiti post-68 con la sua Arte povera. Un posto d’onore, nell’albo degli ingiustamente dimenticati, spettava proprio a lui, a Vincenzo, in compagnia di altri quali Vaccari, Mattiacci, Patella. Per la stessa ragione, parlando della presuntuosa “Ytalia” proposta a Firenze da Risaliti, mi sono permesso di dichiarare che quella selezione non rappresenta al completo la”mia” Italia, dato che appunto non vi trova posto Agnetti. Che ho anche gratificato dell’appellativo di “concettuale” numero uno, tra le nostre file, procurando la gelosia di qualche altro aspirante a quello stesso titolo.
Eppure, a prima vista, nulla sembrerebbe giustificare questa mia stima profonda, in quanto Agnetti appare come un campione di uno spirito “analitico”, il più lontano dalle mie preferenze in tutti i campi, non solo dell’arte ma anche della riflessione filosofica, che ho coltivato a fondo. Io ho combattuto quella tendenza nei vari fronti, a cominciare dagli “analitici” viennesi Carnap e Wittgenstein, che a mio avviso hanno esteso il loro influsso negativo anche sull’intera operazione semiotica, portandomi appunto ad avversarla, Non parliamo poi delle pretese di traghettare quel medesimo atteggiamento anche nell’arte, avanzando la pretesa di una pittura “analitica”, improntata a un geometrismo rigido e stantio, Del resto, proprio in nome della sintesi e contro un possibile predominio dell’analisi ho incrociato spesso i ferri anche con l’amico Filiberto Menna, che in territorio artistico è stato proprio il più convinto assertore del primato da assegnarsi a una “linea analitica”. Ma allora, da che parte sta il nostro Agnetti? Non è forse in lui un esercizio fedele e rigoroso di linee rette, diagrammi e simili? In prima apparenza è proprio così, ma nelle sue proposte scorgevo l’arrivo, prima o poi, di una deviazione, di uno scarto a riguadagnare buoni coefficienti di libertà, di disordine, di anarchia, tanto più eloquenti proprio in quanto nascenti da un terreno in apparenza contrario. Andiamo a vedere la sequenza di tali scarti, approfittando della completa sventagliata di opere offertaci dalla presente mostra. In partenza, magari, c’è una esibizione di tasselli dai formati tutti uguali, irreprensibili nel taglio, ma non per nulla l’intera operazione è posta nel nome del “Perturbabile”, dato che quelle stringhe sono mobili, possono essere spostate a piacere. Viene poi la contemplazione di una calcolatrice Olivetti, che sarebbe un atto di resa, di ortodossia duchampiana, al “tale e quale”, ma ci viene subito detto che si tratta di un ingranaggio “drogato”, tale da emettere responsi non controllabili, non certo ligi alle regole di una corretta sintassi o semantica. Ecco infatti che una sezione successiva si intitola “Oltre il linguaggio”, con una parola da prendersi come tematica, c’è sempre stato in Agnetti un impulso “oltranzista”, tanto più forte in quanto scattante da posizioni in apparenza ligie a certe formule standard. La quintessenza di questo oltranzismo, pronto a esibirsi in campo nemico, là dove meno ce lo aspetteremmo, si ha nel suo ricorso a diagrammi, a prima vista perfetti, su pannelli di bachelite rigorosamente anneriti, sul cui piano le linee, le curve intese a imbrigliare qualche fenomeno si stampano, lucide, perfette, senza sbavature. Ma andiamo a leggere le frasi, le didascalie che le accompagnano, magari slittando verso il capitolo posto sotto il cappello delle “Epigrafi”, e troveremo altrettanti inni alla devianza, alla negazione dei presupposti iniziali. Mi limito a citarne appena due, ma già del tutto eloquenti in questo senso: “Quando mi vidi non c’ero”, “Sempre arrivò preceduto da se stesso”. Potrei fare in proposito un aggancio a un altro artista da me molto amato, a Salvo, nella fase anch’essa “concettuale” anche in quel caso di epigrafi, di pietre tombali, dominate da frasi paradossali. Poi però, come è ben noto, Salvo avrebbe fatto confluire su quei suoi monogrammi un colorismo sfacciato, esaltato ed esaltante, mentre Agnetti non ha mai rinunciato, da autentico “concettuale” negato a ogni giro di valzer, un austero abito in bianco nero, non tale però da cancellare, da appiattire, livellare le scosse che malgrado questa livrea egli riusciva a imprimere. DeL resto, questa coltivazione dei paradossi in atto trova la sua sublimazione nel concetto del “dimenticato a memoria”, una tipica, vistosa contraddizione in termini, fiera di esibirsi in mille modi, magari cominciando con un libro con le pagine assenti, affondate in una voragine. Nel che mi sembra di cogliere un gesto eversivo, di negazione, più forte di quanto Emilio Isgrò affida alla sua pratica, divenuta troppo ripetitiva, delle cancellazioni multiple, che lasciano trasparire il fantasma del non più esistente, mentre Aggetti sa ricacciarlo in una profondità abissale. E così via, se si passa al ricorso ai telegrammi, anche in questo caso il Nostro vi sa far ricorso in modi meno prevedibili rispetto a On Kawara, anche lui troppo diligente nell’attenersi a un copione prestabilito, quello che invece manca assolutamente nelle strategie di Aggetti. Magari si potrà obiettare che nel suo repertorio non manca la tautologia, si veda il caso della telefonata che rivolge a se stesso, ma anche in questo caso c’è il cortocircuito che azzera la portata prevedibile dell’atto. Trovo poi giusto che nella copertina del catalogo si dia conto di una performance da lui concepita, assolutamente rivelatrice delle sue modalità. Anche in questo caso posso rivendicare l’onore di averla ospitata al tempo della prima delle Settimane internazionali della performance, 1977. Fu una delle più brevi in assoluto, ma delle più geniali: l’artista entra nella saletta dei convegni armato di una pila di fogli, finge di incespicare, al che quei lacerti, quei brani di scrittura più o meno conforme a qualche stereotipo si disperdono a raggiera, con bellissimo effetto casuale. E sono stato anche pronto ad ammirare le “Stagioni”, ultima produzione dell’artista, sul punto del decesso, quando, a scanso di equivoci, egli abbandona i diagrammi rigidi di ortodossia euclidea per adottare curve in regola con la geometria dei frattali, iscrive sul solito fondo nero come di lavagna degli schemi tremolanti, quasi ritrovando la grazia fitomorfa della stagione liberty. O sono vetrate delle antiche cattedrali, quando la luce filtrava con parsimonia dai pannelli in alabastro.
Vincenzo Agnetti, A cent’anni da adesso. Milano, Palazzo Reale, fino al 24 settembre. Cat. Silvana Editoriale.

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