Letteratura

Cara O’Farrell, Hamnet non è Hamlet

Ho ricevuto dalle Edizioni Guanda tre romanzi di autori stranieri. Grato dell’invio, ritengo doveroso parlarne qui, uno per volta. Comincio da Maggie O’Farrel, cinquantenne scrittrice irlandese di cui confesso di non aver letto alcuna delle sue opere precedenti, dirigo quindi la mia attenzione all’opera ora ricevuta, “Nel nome del figlio Hamnet”. Sarebbe un romanzo che osa frugare nella vita privata del grande Shakespeare, ma dico subito che questa sarebbe una falsa pista. Mi pare che il grande bardo inglese sia in sostanza assente da queste pagine, dove invece compaiono i suoi familiari. Non sono affatto in grado di controllare la veridicità dei riferimenti biografici presenti in questa narrazione, li do per accettabili, ma appunto da essi risulta che in questa vicenda Shakespeare è il grande assente, invano evocato dai figli, che sarebbero tre, ammesso appunto che questi dati siano esatti. Ci sarebbe una Susanna, e soprattutto una coppia di gemelli, Judith e Hamnet, pronti ad ogni passo a lamentare l’assenza del padre, che se ne sta a fare i suoi interessi a Londra, dimentico di quel nido, quasi pascoliano, che pigola con toni sommessi, minacciato dai mali dell’esistenza. Provvede a loro la madre Agnes, lontanissima dalla statura culturale di quel marito lontano, lei se ne intende di erbe, di semplici, con cui confeziona pozioni prodigiose e salutifere, al limite con la magia. Diciamo pure che una dimensione ben coltivata dalla nostra autrice è quella della cultura materiale, forse i nostri campioni di un simile interesse, quali Carlo Ginzburg e Piero Camporesi potrebbero apprezzare queste pagine, assai più di colleghi anglisti, magari di sicura competenza per quanto riguarda il teatro elisabettiano. Forse il clou di questo forte e ben circostanziato interesse dimostrato dall’autrice irlandese è quanto riguarda l’origine di una ondata di peste, come nasce in qualche Paese d’Oriente e poi attraverso mille passaggi giunge a infestare, a recare la morte anche preso i nostri lidi. E dunque, l’epidemia arriva anche nel paesello dove se ne stanno, ben lungi dal padre, i poveri pulcini di questa covata. Qui scatta il nucleo portante, e in definitiva più felice, dell’intera narrazione. La peste colpisce Judith, con la comparsa dei bubboni ascellari che ben conosciamo attraverso quanto ci narra il nostro Manzoni. A quel punto Hamnet, legatissimo alla gemella, si sdraia nel letto di morte accanto a lei e ne risucchia il morbo, salvandole la vita ma a prezzo della sua. Finalmente il padre William esce dalla sua lontananza, accorre almeno al momento della sepoltura del figlio così trascurato. La O’Farrell tenta di riscattare questa assenza pretendendo che dal povero Hamnet, appena un fanciullo deceduto in fiore, l’illustre genitore, vinto dal rimorso, abbia ricavato una delle figure principali del suo teatro, Amleto. Ma che rapporto c’è mai, tra un povero fanciullo deceduto nella sua prima età. e il principe danese, tormentato da angosciosi tormenti psichici? Velleitaria pertanto appare la celebrazione a posteriori, di una madre, Agnes, che accorre quando a Londra, al Teatro del marito, si dà il dramma centrale del suo repertorio, e dunque intende applaudire anche lei a quella sorta di resurrezione del povero figliolo. Ma il rapporto è del tutto velleitaria. Se in questa storia c’è un minimo di corrispondenza coi fatti. Il grande William non ha rimediato affatto alla negligenza rivolta alla povera esistenza di quel fanciullo.
Maggie O’ Farrell, Nel nome del figlio Hamnet, Guanda, pp. 347, euro 19.

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