Letteratura

Cotroneo, un Caravaggio alquanto conformista

Ho avuto in passato buoni rapporti con Roberto Cotroneo, quando, negli anni ’80 e ’90, collaboravo all”Espresso” e lo avevo come caposervizio alla cultura, credo con stima reciproca. Poi un brutto giorno un direttore di passaggio ci licenziò entrambi, ma Cotroneo è caduto in piedi perché è divenuto magna pars all’università Luiss. Una volta andato in pensione, mi ero rivolto a lui per ottenere, come fanno tanti pensionati, un posticino supplementare. In apparenza accolse cordialmente quella mia richiesta in ricordo della ormai lontana collaborazione, ma a quanto mi risulta una sua caratteristica è di dare appuntamenti che poi non onora con la sua presenza. La cosa si è ripetuta di recente al nostro Istituto di cultura di Bruxelles il cui direttore, due anni fa, aveva deciso di organizzare un incontro in ricordo di Pier Vittorio Tondelli, e Cotroneo doveva essere accanto a me nella celebrazione, ma anche in quell’occasione si è dileguato nel nulla. Ora ricevo un suo saggio, “L’invenzione di Caravaggio”, di cui vado a dire maluccio, ma certo per non vendicarmi di quei mancati appuntamenti, sarebbe meschino da parte mia. Il saggio ha senza dubbio un merito, quello di ricordare uno dei titoli di grandezza di Roberto Longhi, il rilancio delle fortune del Caravaggio che, allorché Longhi si mise al lavoro, agli inizi del secolo scorso, erano alquanto impallidite. In una serie continua e coerente di interventi il critico piemontese-fiorentino ne ha rialzato i titoli, come senza dubbio era giusto, ma forse superando il segno, fino a creare una sorta di Caravaggio-mania che si è estesa a macchia d’olio, e appunto il contributo ossequioso di Cotroneo ne è uno dei molti risultati. Ma in proposito devo ricordare un mio ostinato cavallo di battaglia, la distinzione tra il moderno e il contemporaneo, intendendo col primo, in accordo coi manuali, l’arte che va dal Cinquecento a buona parte dell’Ottocento, di cui il realismo di Caravaggio è senza dubbio una struttura portante, ma occorre precisare che seguendo quella pista si arriva a Courbet e agli Impressionisti, e non oltre. L’arte caravaggesca, in tutto il contemporaneo, è inattuale, nessuno dei suoi protagonisti tra fine Ottocento e Novecento ha saputo che farsene di lui, anzi, ha dovuto allontanarsene. Del resto i conti tornano, dato che Longhi è stato un nemico del contemporaneo, pur dopo una brillante partenza giovanile in cui aveva riconosciuto i meriti di Boccioni. In seguito ha pronunciato qualche bestemmia contro i punti di forza del contemporaneo, per esempio in lode di un realista della Scuola romana anni Trenta ha asserito che per sua fortuna non sarebbe mai annegato in quelle piatte risaie con pochi pollici d’acqua in cui è naufragato Mondrian. E quando negli anni Cinquanta ha avuto in mano una rubrica giornalistica importante, l’ha sì condivisa con Francesco Arcangeli, tra i suoi migliori allievi, ma sbuffando di intolleranza quando l’altro celebrava, a parer suo con troppa insistenza, le lodi di Pollock. Ritornando in territorio caravaggesco, dove senza dubbio sono forti i meriti longhiani, ho pure più volte dovuto controbattere alla sua ipotesi centrale di una derivazione del Merisi dal Cinquecento lombardo, scambiando appunto per incunaboli di realismo “moderno” quanto invece, da parte del Lotto, e poi del Savoldo, del Moretto e di altri, era solo una derivazione dal capostipite del Rinascimento nordico, Albrecht Duerer: quel pilastro contro cui invece il Longhi non si è trattenuto dal borbottare riserve e dubbi. E poi, se nella Lombardia tra i due secoli ci fosse stata una cultura così fertile in termini di realismo-naturalismo, come mai, andato via proprio Caravaggio, di questo clima sono rimaste ben poche tracce? Il Seicento non è affatto un secolo prodigioso, in terra lombarda, mentre tutto si sposta su Roma, davvero in quel momento “caput mundi”. E ancora, proprio attorno al primo approdare del Merisi nell’Urbe, persiste un fitto mistero. Da dove gli è venuto quel miracoloso e meraviglioso iper-realismo “in chiaro”, di meticolosa consistenza nelle carni e negli abiti? Questa è una partita ancora tutta da giocare, e il retaggio lombardo vale molto poco a spiegarla.
Beninteso di tutta questa problematica non ci sono tracce nel saggio di Cotroneo, che procede tranquillo e sicuro per le vie dell’elogio acritico. in linea con l’opinione corrente e dominante. Questo essere “in”, nel fiume del consenso, gli consente di essere apprezzato e riverito, mentre io procedo per le mia via scomoda e solitaria, con ben pochi riconoscimenti di qualsiasi tipo.
Roberto Cotroneo, L’invenzione di Caravaggio, UTET, pp. 131, euro 18.

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