Arte

Dalla Borghese a Barberini

Barberini

Apprendo dal mio solito informatore, Artribune, che  a  Roma è avvenuto un curioso scambio, tra due grandi collezioni appartenenti entrambe, se non sbaglio, allo Stato attraverso le relative soprintendenze. Vale a dire che dalla Galleria  Borghese una cinquantina di capolavori sono migrati per qualche tempo nel vicino Palazzo Barberini. Questa manovra, a mio avviso, dovrebbe essere resa permanente, in quanto come ho detto varie volte la Borghese è piena come un uovo, con l’aggiunta della tendenza pericolosa del direttore, o direttrice di turno di ficcarvi dento pure una qualche presenza indipendente dalle opere presenti, mentre la non distante collezione Barberini ha molto spazio da riempire, e in definitiva può vantare soprattutto il magnifico affresco di Pietro da Cortona, capolavoro supremo del nostro barocco. Naturalmente inutile che io ripeta che non sono  più in grado di fare un  sopralluogo, mi devo quindi accontentare di un breve commento di tre tra i molti dipinti fatti oggetto di questo curioso scambio provvisorio, tra i quali il capolavoro assoluto è il dipinto di Tiziano, Amor sacro e amor profano, in cui l’artista veneto va molto vicino all’altezza raggiunta da Raffaello  negli affreschi dell’appartamento sistino. Stesso sovrano equilibrio tra una classicità che viene da  lontano e una freschezza  di carni, rilevante soprattutto nell’amor profano, in un’atmosfera ariosa,  ventilata. Da quel momento di eccellenza assoluta Tiziano romperà, come si potrebbe dire di un puledro di razza che interrompe un trotto ben misurato per darsi a un galoppo impazzito, stracciando le vesti dei personaggi, come anche degli sfondi paesistici in cui essi affondano sempre più. Col che Tiziano si proietta in avanti fino a sfiorare esiti degni del barocco, dello stesso Rubens, di cui compare una Susanna e i veccchioni  con un nudo sensuale al massimo, vivo, palpitante davanti a noi, in un sfondo scuro, che sembra quasi proporsi  di inghiottire la scena e di nascondercela in parte. In mezzo ci sta di Raffaello un ritratto, La  Dama del Liocorno, che nell’infinito repertorio dell’Urbinate non segna un esito degno di una qualche particolare segnalazione, ma certo il ritratto riscatta abilmente un qualche residuo di immobilità quattrocentesca, sul volto appare un sorriso appena accennato, come se la dama ritratta fosse sorpresa dallo scatto di una fotografia. Vale la pena di notare, sfruttando l’uguaglianza del soggetto, che qui siamo in presenza di una indubitabile autografia del pittore, mentre in altri luoghi io mi sono permesso di toglierla al pur grande Leonardo per la sua Dama corrispondente, troppo chiusa in difesa della propria immagine invece di dialogare con l’ambiente, che era il requisito primario di ogni opera di Leonardo. Da notare che una morte prematura non ci consente di parlare delle scelte raffaellesche dopo quel  momento di perfezione, quasi quotidiana. Ma certamene egli non avrebbe rotto il passo come Tiziano, non avrebbe avuto nulla da spartire col  barocco imminente, non sappiamo invece in quale  misura avrebbe acceduto alle lusinghe del manierismo invece di lasciarle solo a uno stuolo di allievi infedeli e traditori, a cominciare dal pur diletto Giulio Romano.

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