Attualità

Dom. 31-12-17 (Marchesi)

E’ opportuno che anch’io partecipi agli omaggi che da tante parti si sono svolti per la scomparsa di Gualtiero Marchesi, e non solo da parte di colleghi o allievi nello stesso mestiere di una gastronomia di eccellenza. Sono ben noti e riconosciuti da tutti gli agganci che egli sapeva impostare con le arti visive, e proprio sotto questo aspetto ora è possibile anche a me dedicargli un modesto riscontro, anche se non mi è affatto indifferente l’ambito in cui primeggiava. La cucina costituisce un prezioso terreno per esplorazioni “estetiche”, ricordando che il termine, stante l’origine etimologica, riguarda prima di tutto le reazioni di ordine sensoriale, e queste non possono limitarsi solo a una dimensione teorica, ovvero, la cucina la si deve pure sperimentare, un po’ di ghiottoneria è indispensabile. La prima occasione di incontro tra me e Marchesi avvenne proprio sul filo dell’arte, il gallerista Giorgio Marconi, dopo aver ospitato agli inizi dei ’70 la presentazione di saggi miei e del compianto Menna ci portò nella sede primaria di Gualtiero, in via Bonvesin della Riva, dove ebbi il mio battesimo sui prodotti della “nouvelle cuisine”, mi pare di ricordare con qualche meraviglia, e anche disappunto, data l’esiguità delle razioni, a fronte di un appetito allora sano e robusto. Poi, una seconda tappa, a molta distanza di tempo, e agli inizi del nuovo millennio, avvenne in una sede dell’esercizio di Marchesi che non mi pare sia stata adeguatamente ricordata, mentre fu forse la più estesa nel tempo. Chiuso il locale di Milano, era emigrato, ospite di facoltosi proprietari, in una bella villa a Erbusco, in vicinanza di Brescia e del Lago d’Iseo, dove raffinati cultori della migliore cucina gli rendevano visita. In quegli anni si era stabilito per me un felice sodalizio con Tino Bino, allora dominatore di quelle contrade e alla testa di un ben funzionante Ente bresciano di manifestazioni artistiche, in cui si realizzava un miracoloso incontro tra la destra, dominatrice nella Provincia di Brescia, e Comune, in cui appunto Bino aveva voce in capitolo. Poi, le due componenti si misero a litigare e quel ben lubrificato meccanismo si interruppe. Ma nei pochi anni in cui funzionò io riuscii, con l’aiuto di Bino, a farvi mostre di grande soddisfazione, come “Impressionismi in Europa”, seguendo un mio chiodo fisso che non ho certo cessato di coltivare, che cioè quell’”ismo”, con cui si conclude la parabola secolare dell’arte moderna, non sia stato di pertinenza esclusiva della sola Francia, ma comune a tutti i Paesi dell’Occidente. Tanto è vero che poco dopo feci seguito puntando su un “Impressionismo italiano”. Ed ebbi anche modo di rivisitare il mio amore costante per Jean Dubuffet ricordando i suoi ultimi anni dediti al graffitismo, e così ponendosi, forse involontariamente, alla testa dei Writers statunitensi e di altre mosse del genere. Ebbene, era rituale che per festeggiare le “vernici” di queste mostre ce ne andassimo, in gruppo scelto, alla mensa di Erbusco dove Marchesi ci accoglieva in bianco camice, da addetto a un laboratorio scientifico, e ricordo anche che ci mostrava curiosi strumenti, come per esempio un apparecchio per schiacciare le anatre dividendone le carni dal sangue. Erano cene molto impegnative, dato che vi si svolgeva il rito di abbinare ad ognuno dei numerosi piatti un vino adatto, dall’aperitivo all’amaro finale. In una di quelle occasioni non ressi del tutto alle eccessive bevute, feci fatica a riguadagnare la stanza dell’albergo bresciano che ci attendeva, il maestoso Vittoria, tanto che mia moglie fu costretta a ricorrere all’aiuto del portiere di notte per farmi issare nel letto che ci attendeva. Ma forse l’occasione di incontro più bella, e più generosa da parte di Marchesi, fu, in anni a noi vicini, quando volli festeggiare un artista a me molto caro, Aldo Spoldi, che usava collocare i suoi dipinti sui fianchi e all’interno di un camper, così trasferendo la sua opera in varie gallerie della Penisola. Immaginai che quel comune camper fosse un equivalente del Carroccio caro ai fasti del Comune di Milano, e gli spettasse pertanto una benedizione ecclesiastica, magari impartita in luogo sacro all’arte, come l’ex-chiesa di S. Carpoforo, estensione dell’Accademia di Brera. E un docente di Brera, oggi in pensione, Francesco Correggia, si prestò molto bene a quell’impresa tra il serio e il faceto, rivestendo in modi appropriati una tonaca pretesca e borbottando qualche maccheronica giaculatoria. E Marchesi si degnò di presenziare alla pur dubbia cerimonia, assieme a Marconi, grande protettore di Spoldi e mentore di ogni approccio all’arte del re dei nostri chef. Sull’onda di quel felice incontro concepii anche l’idea di far organizzare da Marchesi cene favolose costruite attorno a qualche artista di grido, con la partecipazione di invitati ben scelti cui far pagare un giusto prezzo. E il fatto che, abbandonata la sede in definitiva scomoda di Erbusco. il grande cuoco avesse rimesso piede nella sua Milano, fondandovi l’ancora esistente e a lui sopravvissuto Marchesino nel sacro edificio della Scala, mi sembrava rendere abbastanza facile l’operazione. Ma lui mi rispose che era ormai malandato e non se la sentiva di assumere gli oneri di questa impresa. Fu la fine del nostro, rapporto, mentre io rimanevo in attesa di tempi migliori nella speranza di riuscire a riproporlo, un’attesa ormai sfumata per sempre.

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