Letteratura

King: un capolavoro per metà.

Confesso che nella mia carriera ho mancato di rendere il dovuto omaggio alla grande presenza di Stephen King, il colosso nei generi horror e phantasy, ma forse proprio questa eccellenza conseguita in rami particolari gli ha impedito di cogliere i successi critici che meriterebbe, fino all’assegnazione di un Premio Nobel. Temo di non aver mai scritto su una sua opera, per varie ragioni mi sono arrestato ogni volta nella lettura di qualcuno dei suoi prodotti. Forse il maggioro grado di attenzione continua lo avevo rivolto al romanzo del 2011 che reca nel titolo la data fatidica dell’assassinio di Kennedy, “11/22/63”. Ma ora tento di rimediare parlando del suo ultimo nato, “Sleeping Beauties”, anche se dovuto in parte alla collaborazione col figlio Owen. Diciamo subito però che si tratta di un lavoro riuscito solo per metà, si può riconoscere la salda mano del maestro nel concepimento di meccanismi diabolici solo per una pur vasta parte del romanzo, capace di mettere in atto una trappola tragica, inesorabile, da cui però i due autori stentano a uscire. Ma forse questo è un effetto inevitabile del genere assunto, quasi come chi compie un volo nello spazio da cui è pur necessario rientrare sulla terra, ridiscendere a quote normali. Siamo in una cittadina della Virginia, non saprei dire se esistente o se frutto di invenzione, e nel cuore di un luogo abietto, di un carcere femminile. Già qui si incontra una prima delle virtù del nostro scrittore, la capacità di muoversi sulla scena del quotidiano, con tutte le sue nequizie, malvagità, ma anche abilità dei viventi nell’adattarsi alla scena di un Paese avanzato, pieno di risorse, di marchingegni, come ovviamente sono gli USA. Cibo, droga, sesso, tutto come viene consumato giorno per giorno, con l’accentuazione malefica che può spettare a una comunità di carcerate, vittime di delitti variamente scaglionati nel grado di efferatezza, alle prese con custodi e guardiani che le ripagano di uguale moneta. Insomma, quando io attribuisco ai nostri attuali romanzieri, dai “Cannibali in su, una pratica di neo-neorealismo, dovrei invitarli a nutrirsi della scioltezza, compiacenza, indifferenza di King nell’affrontare e nutrirsi della più incombente, pressante realtà dei nostri giorni.
Ma accanto a questo abile, consumato, perfetto stato di normale degrado e abbrutimento, subentra ben presto un motivo alienante, misterioso, imprevedibile, sotto forma di un’epidemia che colpisce solo le donne e si manifesta col fatto che sui loro volti e sulle loro epidermidi compaiono delle appendici, dei tubercoli, delle bave filiformi con la minaccia di avvolgerle a poco a poco, come di impacchettarle in quelle sostanze che magari oggi si usano per la conservazione dei cibi. Le povere donne insomma quasi spariscono alla vista, sotto quell’orrido vello spuntato sulle loro carni, fino a nasconderle, e guai se si tenta di liberarle, di pulirne i volti, l’effetto è letale. Nello stesso tempo, a completare l’insidia le donne sono prese da una sonnolenza cui invano tentano di resistere. Se vi si abbandonano, per loro è la fine, quel rivestimento si impadronisce dei loro corpi causandone la morte. I tentativi di resistere andando nelle farmacie a svaligiarle di prodotti capaci di vincere quella nefasta sonnolenza, rasentano la comicità, e sono comunque tra le componenti dell’azione esagitata e drammatica presente in queste pagine.
Le modalità con cui si annubcia questa epidemia sono impressionanti, ma alla lunga, col ripetersi degli stessi sintomi ed effetti, generano pure, ammettiamolo, una certa noia, per quanto la fantasia dei due narratori si sforzi di inventare delle varianti, di presentare il fenomeno con modalità il più possibile diversificate. Ma soprattutto, come già detto, i due autori, padre e figlio, non sanno come balzar fuori da quell’infernale contatore fatto partire, che se seguito fino in fondo porterebbe appunto alla morte, nel romanzo, di tutta la componente femminile. Come uscirne? La regia King tenta due vie. All’improvviso nel cuore del carcere, e proprio da parte di una donna colpevole di orridi delitti, si manifesta una resistenza al male, lei riesce a non cedere al sonno, e non le compaiono sul corpo le schifose appendici. Come si spiega questo miracolo? Ovviamente i comportamenti di questa persona privilegiata, scampata dalla peste, vengono studiati, ma nulla si scopre che possa essere valido e applicabile in altri casi. Che fare allora, forse la narrazione deve ricorrere a qualche deus ex machina, all’intervento di qualche potere superiore salvifico, che ha fatto dono della salute a un essere pur in apparenza tra i più perfidi e meritevoli di dannazione? Ma le ragioni di questo miracolo non vengono dette, gli autori. alla lettera. non sanno a che santo votarsi. Ben più ampio è lo sbocco proprio sul fronte dei destini femminili, che infatti non sfociano nella morte, questo sarebbe come portare il romanzo a una fine automatica, per la perdita irrimediabile di una metà del genere umano. In realtà, quando le protagoniste al femminile sono ben imbozzolate e cadute nel sonno, avviene il loro passaggio in un’altra dimensione in cui riprendono a vivere. Qui King ritrova l’idea del pertugio, del buco che dà accesso a un altro mondo, come avveniva nel romanzo sopra citato, dove il protagonista, pur installato nei nostri giorni, trova una via misteriosa per tuffarsi nel passato in cui tenta disperatamente di evitare il delitto di Dallas, l’uccisione del presidente Kennedy. Anche in questo caso funziona un meccanismo analogo, di accesso a un altro universo, ma senza che le due metà si possano ricomporre, e dunque a dominare resta la prima parte, quel lento, implacabile manifestarsi dell’epidemia, da cui in definitiva non c’è riscatto.
Stephen e Owen King, Sleepiung Beauties, Sperling & Kupfer, pp. 649, euro 21,90.

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