Letteratura

Erri De Luca: un giro dell’oca che funziona

Non sono mai stato molto favorevole alla narrativa di Erri De Luca, nei pochi casi in cui mi è avvenuto di incontrane dei prodotti. Vi ho ravvisato la sindrome della “napoletudine”, un termine per me negativo che sta a indicare chi sfrutta alquanto passivamente i riti e i miti di una grande stagione, ma vivendola di riporto, di ripetizione non troppo differente. Un’accusa, questa, da me scagliata anche contro un altro narratore pure molto stimato quale Ermanno Rea, da non confondere col suo omonimo, non so se legato a lui da qualche parentela, Domenico, che invece mi è sempre apparso come un ammirevole rinnovaatore di quella tradizione, in forme aggressive e potenti. A proposito di una di queste opere poste all’ombra delle glorie altrui, se non sbaglio “Il giorno prima della felicità”, dove al giovane protagonista viene addirittura messa in mano un’arma perché possa procedere a un immancabile delitto d’onore, mi è scappato detto “No, per favore no, non replichiamo la Cavalleria rusticana!”. Ma ora, davanti a un prodotto recente di De Luca, “Il giro dell’oca”, mi devo ricredere, forse perché qui l’autore si muove in proprio, sul suo, tuffandosi in un’ampia, esagitata, chiaroscurata auto-narrazione, se vogliamo far uso di una categoria oggi molto presente nei discorsi critici. A sollecitarlo a questa prolungata confessione è una invenzione abbastanza stimolante, infatti colui che si confessa dichiara di essere un padre mancato. Una delle donne della sua travagliata esistenza che ha messo incinta è stata a suo tempo obbligata ad abortire, e dunque ora il genitore mancato finge di dialogare col figlio mai nato, promosso al rango di avvocato del diavolo, di accusatore insistente, implacabile. Per caratterizzare le due parti, gli sferzanti atti d’accusa del figlio vengono stampati in grassetto, ma diciamo pure che l’autore, pur in vena di confessare i suoi torti e di dichiararsi disposto a espiare, in realtà ammorbidisce la posizione dell’interlocutore, si finge insomma un avversario di comodo. Credo che un lettore, come sono stato io stesso, parteggi spontaneamente per la voce del padre, dato che le contestazioni provenienti dall’altra parte sembrano pronunciate con tono saccente, da saputello, proprio di un giovane dei nostri giorni che si porta dietro tutti i principi, o pregiudizi etici che oggi abbiamo conseguito. Mentre dall’altra parte ci sta un povero Cristo intento proprio a compiere un “giro dell’oca” ad avvoltolarsi su se stesso, a confessare torti, fallimenti, pentimenti, ritorni sui propri passi. L’espressione più efficace si trova a p. 100 in cui il protagonista dichiara di dare voce a una “assemblea di me stessi”, cioè appunto alle molte vite, parti, maschere via via assunte, come operaio, come scrittore ai primi passi, come ideologo, come essere pieno di vanità, di errori, di presunzioni. Ne viene una trama davvero mobile e inquieta in cui, parlando di sé, il narratore percorre anche le tappe esagitate dei decenni trascorsi, ricostruite tra il pubblico e il privato, trovando sempre la parola giusta, la similitudine efficace. Lo si potrebbe accusare di facilitarsi il compito, fino ad apparire come un foscoliano “bello di fama e di sventura”, mentre dall’altra parte gli viene opposto un manichino, un oppositore di comodo, troppo compunto, troppo “perbene”. Ma in questa dialettica la pièce, quasi recitata più che affidata alla scrittura, raggiunge una sua efficacia, anche per il contrasto grafico secondo cui sono stese le due recite, quella bassa, quotidiana, prosastica del padre viene affidata a un corpo normale, mentre quella del figlio, sempre incalzante, sopra le righe, perfino retorica, risulta costretta in un grassetto rigido e inflessibile.
Erri De Luca, Il giro dell’oca, Feltrinelli, pp. 122, euro 13.

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