Letteratura

Francesca Del Moro: obbedienza o dissidenza?

Nelle scorse domeniche 3, 10 e 17 aprile ho dedicato una triangolazione ad altrettanti aspetti della ricerca poetica quali apparivano da recenti pubblicazioni, poste all’interno di percorsi a me familiari. Cesare Viviani, a suo tempo visitatore del continente dell’intraverbale, ovvero del ricorso a neologismi, dimostra ora di essere rientrato in una tradizione maggiore di assorta e triste documentazione dell’esistente, quasi collegandosi agli Erba e Risi e Giudici di una sopravvivente “linea lombarda”. Marco Giovenale è sempre il più intrepido nello sperimentare le novità formali di una poesia alla ricerca di nuove dimensioni. Rosaria Lo Russo insiste sul versante dell’emotività più spinta e prorompente. Ora voglio aggiungere un’integrazione, a questo prospetto, dando udienza a un frutto di RicercaBO, l’incontro aperto a voci nuove in cui mi impegno annualmente, e vale proprio la pena ricordarlo per due proprietà: la voce della poesia vi sta prevalendo rispetto all’eterna rivale della prosa, e si aggiunga che questa rimonta dei poemi brevi rispetto a quelli lunghi (modo molto concreto di indicare la differenza tra i due generi) trova un fitto apporto da parte delle donne, ovvero sembra proprio che la letteratura di punta si mostri in perfetta regola nel promuove la causa della parità tra i sessi. Lo attesta il caso di Francesca Del Moro, col suo “Gli obbedienti”, di cui l’anno scorso, secondo la formula di RicercaBO, aveva letto in anticipo alcuni brani quando la sua raccolta era ancora inedita. Volendole trovare una collocazione, diciamo che la Del Moro sta nel cassetto di Viviani, in lei non ci sono virtuosismi grafico-sperimentali alla maniera di Giovenale e suoi seguaci, e neppure urli, “spasimi”, alla maniera della Lo Russo, al contrario la sua dizione è molto controllata, riconosce che c’è una realtà grigia, anonima, soffocante, quella del lavoro, coi suoi riti e obblighi, le minacce di licenziamento, i richiami all’ordine di autorità sovrapposte. Questi fattori coibenti si presentano come robusti strati che rischiano di soffocare sotto il loro peso i lamenti, i palpiti di individualismo, le proteste esistenziali dei singoli. In fondo la Del Moro da un lato ammette l’”obbedienza” annunciata dal titolo della raccolta, che però non vuol dire sottomissione, ma solo riconoscimento di pesanti fattori sociologici che ci sono, contro cui però la poesia non rinuncia affatto a far avvertire la sua protesta, rivolta a testimoniare quanto non rientra in quel quadro ufficiale. Saranno i drammi piccoli ma incancellabili di animali morenti, o tante minute sofferenze patite sulla propria pelle. Siamo insomma come in presenza di una sapiente torta a più strati, dove quelli di natura pubblica e ufficiale pesano enormemente, reclamano senza dubbio riconoscimento, “obbedienza”, ma non riescono a soffocare gli odori e sapori della dissidenza, le tenaci testimonianze emergenti da un montaliano “male di vivere”, sempre pronto a spuntare, come erbe non coltivate, irregolari, ma che non per questo possono considerarsi trascurabili. Qualche volta la Del Moro ricorre al genere classico degli haiku, ma di sicuro non è per fornirci degli “idilli”, dei quadretti rasserenanti e distensivi, al contrario ne emergono strozzature, segni di un umano disagio che chiede di essere registrato, tanto più intenso quanto accennato per brevi tocchi, per minimi segni.
Francesca Del Moro, Gli obbedienti. Postfazione di Anna Maria Curci, Cicorivolta edizioni, pp. 117, euro 10.

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