Letteratura

Il “gufo” Mengaldo

Matteo Renzi è notoriamente un eccellente inventore di slogan, tra cui quello di “gufi”, rivolto a colpire i profeti di sventura, coloro che in ogni campo vedono nero. In questo senso un gufo ad honorem potrebbe essere proclamato Pier Vincenzo Mengaldo, cui Paolo Di Stefano ha dedicato una lunga intervista nella “Lettura” di domenica 23 agosto (ancora in edicola per poche ore). Di Stefano è recidivo, dato che appena una settimana fa l’ho bacchettato per una rassegna anch’essa sbilanciata a danno dei valori della ricerca per quanto riguarda la poesia attuale. Forse già in quell’occasione poteva dare la parola a Mengaldo, artefice di un’antologia, “Poeti italiani del Novecento”, 1978, contro cui io stesso sono insorto su “Alfabeta”, nella sua prima incarnazione, mettendo in luce quanto quell’opera fosse punitiva e restrittiva verso l’intero fronte della neoavanguardia. Il bello è che Mengaldo si vanta di essere prima di tutto un filologo, ma un impegno del genere lo obbligherebbe a registrare i fatti esistenti, salvo poi la libertà di giudicarli e magari condannarli, Ma lui, tutto ciò che riguarda l’intero versante della sperimentazione del secondo Novecento, lo omette, non gli accorda un minimo di esistenza. Da questo punto di vista, è più corretto un altro “gufo” come Berardinelli, che almeno inveisce contro di noi, il che è in definitiva più accettabile rispetto a un ignominioso passarci sotto silenzio. Ma perché l’equilibrato Di Stefano si ostina a dare la parola a questi profeti di sventura, perché non interpella qualche esponente dell’altro fronte, per carità non alludo a me stesso, già defunto da tempo alle cronache. Ma almeno, poniamo, un Angelo Guglielmi? Così il panorama si farebbe più veritiero e rispondente. Basta, a far capire dove si vada a parare, il titolo dato all’intera intervista, del tutto eloquente, “Il buio dopo Calvino”, ma è il buio di chi volutamente spegne la luce per non vedere, oppure non osa spingersi avanti nelle letture per non mettere a repentaglio un suo quieto vivere, un cullarsi nell’assenza e nella dimenticanza. Bontà sua, Mengaldo si spinge, pur già a denti stretti, verso Tabucchi e Del Giudice, ma già col caso di Celati appare la fatidica frontiera dell’”hic sunt leones”, si vede che non prende nota, da perfetto filologo, neppure dei responsi del Premio Strega, da cui pure risultano segnalati gli Scarpa, Ammaniti, Piccolo, Lagioia emersi in una seconda vita del Gruppo 63, che dopo tutto ha rimediato forse agli eccessi di rigore nutriti nella sua prima incarnazione degli anni Sessanta, accogliendo, nei raduni reggiani di RicercaRE, una brillante schiera di narratori. Questi poi sono andati a dama, riportando addirittura la confortante segnalazione del più prestigioso premio nostrano, in cui perfino l’establishment dovrebbe riconoscere una propria garantita emanazione. E devo dire che personalmente ho dato voti buoni o al limite discreti anche verso altre uscite, della Mazzucco, di Giordano, di Nesi. Quindi, niente buio oltre la siepe, purché si abbia un minimo di energia per superarla, si sappia affrontare il nuovo con un pizzico di energia e buona volontà. Non passiamo poi a esaminare l’altro versante, della ricerca poetica, nei cui confronti, dovunque almeno si avverta qualche odore di sperimentazione, il bravo Mengaldo aveva già chiuso i conti nel 1978, e dunque per lui tutto questo continente non esiste da almeno un mezzo secolo. Se questo è un filologo…

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