Arte

Il Perugino non arriva alla “maniera moderna”

Il Comune di Milano ha da qualche anno la buona abitudine di offrire alla cittadinanza, in una sala della sua sede, Palazzo Marino, un capolavoro d’arte come biglietto di auguri natalizi. Quest’anno il felice compito è stato affidato a una delle tavole più note e riuscite del Perugino, l’”Adorazione dei Magi”, opera centrale nell’attività del maestro umbro. L’occasione è molto valida per me in quanto mi consente di riprendere subito la polemica che quasi sempre mi ha sorretto nel mio insegnamento di fenomenologia degli stili, contro il ricorso a talune denominazioni stilistiche pompose ma in sostanza molto equivoche. Domenica scorsa me l’ero presa con l’etichetta di Romanticismo, ma tra le righe avevo già dichiarato che la più equivoca e ingannevole fra tutte è quella di Rinascimento. Prova ne sia che il primo e migliore storico dell’arte che abbiamo avuto, Giorgio Vasari, non ne ha mai fatto uso, limitandosi a porre all’inizio di tutto, con grande chiaroveggenza, Cimabue e il suo “voltare” il linguaggio della pittura dal “greco”, che per lui stava per “bizantino”, in “latino”, certamente alludendo a una rinascita del naturalismo della grande tradizione greco-romana, ma da non potersi contrarre in una formula unica. Anzi, il grande Aretino dava a quel nuovo inizio una lunga storia, scandendola in “maniere”, che per lui erano equivalenti di “stili”, dato che nel suo lessico non era ancora avvenuto il “trasporto” metaforico da un umile strumento materiale, lo “stilo” degli scribi romani con cui scalfivano per usi quotidiani delle tavolette fittili ricoperte da uno strato di cera, a un significato “superiore”. Ma appunto grande merito del Vasari è stato di non contrarre quella “maniera” in un unico, amorfo prodotto, ma di darle un ampio sviluppo diacronico distribuito in tre fasi, culminanti nella “maniera moderna”, di Leonardo e Michelangelo, e del loro erede migliore, Raffaello, Ma di quella “maniera moderna” il Perugino è stato solo un profeta, non un praticante, a lui, e ai suoi pur validissimi coetanei, nati all’incirca alla metà del ‘400, cioè i vari Botticelli, e Signorelli e Ghirlandaio, toccò il destino di fermarsi nel limbo della “seconda maniera”, quella che certo possedeva già una pratica disinvolta delle anatomie e fisionomie, ma mancava di articolazione spaziale. I volti, per esempio, come proprio succede in questa tavola, si accalcano in primo piano, guancia a guancia, quasi incollati, quasi a impedire che tra l’uno e l’altro circoli dell’aria, come pesci che stanno annaspando nella rete. Caso mai, per evitare che tutti quei corpi franino a terra per eccesso di assembramento, l’artista pone nella scena dei tronchi verticali, come assi, putrelle, travi per sorreggere quell’affollamento di corpi, che ignorano assolutamente una possibilità alternativa, quale sarebbe il distribuirsi nello spazio. Questo resta nulla più che una quinta schiacciata, come il fondale per uno spettacolo. Ecco un tratto tipico di “quasi” tutti i protagonisti della seconda maniera, l’essere dominati da una paura dello spazio profondo, così da indurre i propri personaggi a evitarlo. Tra di loro, c’è stato soltanto un coetaneo capace di compiere il passo decisivo, Leonardo, che non per nulla nelle mie lezioni, fondate sul metodo del materialismo culturale e del criterio delle omologie, ho paragonato a quanto fatto da un altro suo coetaneo, Cristoforo Colombo, che ebbe l’ardire di dirigere le tre mitiche caravelle verso il largo, verso il mare aperto, mentre fin lì i naviganti si limitavano a bordeggiare lungo la costa. Nella sua “Annunciazione” il Maestro di Vinci spinge lo sguardo in lontananza, in campo lungo, facendo invadere lo spazio dalla tenuità azzurrina dell’atmosfera, di cui per primo intuisce la presenza, a “sfumare” la visione, che invece nel Perugino e compagni resta troppo nitida, lunare, in quanto non disturbata per nulla da quel gas stemperante che è appunto l’aria. Sarà invece pronto a intendere questa grande e inevitabile innovazione il giovane Raffaello, esattamente nel momento in cui abbandona la scuola del Perugino per passare a quella decisamente “moderna” del Vinci. E se si confrontano due celebri esecuzioni dell’uno e dell’altro attorno allo “Sposalizio della Vergine”, si nota a meraviglia lo scarto intervenuto, con il giovane che induce i personaggi ad allontanarsi dal primo piano, a distribuirsi in profondità, mentre anche il tempio in lontananza non è più un pura sagoma piatta, sforbiciata e incollata sullo sfondo, ma assume anch’esso un inizio di rotondità, anche se si dovrà andare ben oltre quell’ancora timido inizio, e Raffaello stesso crescerà ben presto su se stesso inoltrandosi coraggioso lungo i sentieri della modernità. In questa animata e decisiva vicenda il “rinascimento” ha ben poco da dirci, potrebbe essere solo fonte di inciampi e di inutili battute d’arresto.
Perugino, Adorazione dei Magi, a cura di Marco Pierini. Milano, Palazzo Marino, Sala Alessi, fino al 13 gennaio. Cat. Silvana Editoriale.

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