Arte

Koons, stella polare per i naviganti del nuovo secolo

Sono stato al Beaubourg di Parigi per rendere il dovuto omaggio alla grande retrospettiva di Jeff Koons che vi è giunta dopo essere partita nella primavera scorsa dal Whitney di New York, con cui la vecchia sede ha chiuso nel modo migliore la sua lunga storia. Confesso di aver provato di farla arrivare anche a Milano, magari in concomitanza con l’Expo, ma non ci sono riuscito, sia per l’impossibilità di lasciare in giro un enorme complesso di opere, sia, soprattutto, per la mancanza di coraggio e di finanziamenti dei nostri organi, sempre pronti a replicare omaggi inutili a nomi stranoti e invece restii a impegnarsi davvero sull’attualità. Che invece è prorompente nel caso di Koons, come avevo già intravisto nel ’90 insistendo perché fosse invitato all’”Aperto” della Biennale di Venezia di quell’anno, e subito dopo inserendolo nella rassegna emiliana “Anninovanta”. Allora emisi il verdetto che in lui era da vedere la maggiore presenza mondiale in chiusura del secolo e in apertura sul nuovo. Per fortuna quella mia scommessa viene citata nel poderoso catalogo della mostra, a cura di Scott Rothkopf, come modesto risarcimento della mia “lunga fedeltà” prestata a questo artista. In cui ho visto fin dal primo momento la perfetta realizzazione di un mio schema, da bravo fenomenologo degli stili quale sono sempre stato, pronto a scomodare la sacra triade hegeliana. Abbiamo infatti avuto gli anni della “tesi”, ovvero di tutti i movimenti di neoavanguardia anni Sessanta, dalla Pop Art al comportamento, concettuale, poverismo ecc. Poi c’è stata l’antitesi, ovvero il rovesciamento della frittata, la corsa a rovistare nel museo, attraverso i vari citazionismi, o “ripetizioni differenti”, per usare una mia espressione. Infine, a partire dalla metà degli anni Ottanta, cioè proprio dal momento in cui l’importanza di Koons emerse in una mostra famosa presso Ileana Sonnabend (al suo fianco c’erano pure altri portabandiera della nuova situazione quali Haim Steinbach, Peter Hallety e l’allora giovanissimo Wim Delvoye) si ebbe appunto una larga e generosa sintesi, che in definitiva ci accompagna ancora. Per esempio, Koons riprende tutte le soluzioni delle avanguardie dure e pure, ma le sintetizza con aspetti di piacevolezza, di loisir, di consumismo, a loro volta alleati alle seduzioni di un colorismo sfacciato e aggressivo. Le soluzioni nuoviste sono sempre condite da lui con sfoggio del bello, che però, per venire incontro all’altra parte, si degrada spontaneamente in kitsch, ovvero c’è una rincorsa tra tutte queste facce, che però alla fine si compongono in una perfetta soluzione unitaria. All’inizio egli segue l’esempio del ready made di Duchamp, dandoci uno spettacolo di tutti i possibili impianti igienici. Che però non sono brutti, volgari, squallidi come per maggiore provocazione si ostinava a proporli il maestro del Dadaismo, bensì nuovi di fiamma, urlanti nella festa dei colori che li rendono appetibili a un consumismo avanzato e spregiudicato. Poi viene preso di mira Oldenburg, col gigantismo dei suoi oggetti, ma mentre il capofila della Pop, anche lui, si rivolge a oggetti volgari e di prima necessità, il suo erede va a frugare nei prodotti legati al loisir, alle scelte optional, bambole, pupi, balocchi, però, alla maniera di Oldenburg, riscattati proprio da un gigantismo smodato, e anche dall’uso di materiali che sono in voluta contraddizione con lo stesso carattere scultoreo, e dunque sono affidati al legno, alle materie plastiche, o addirittura ai “gonfiabili”. L’equilibrista si regge sempre sulla fune, procede conciliando i contrari, il solenne col futile, il monumentale col precario, ma è proprio questa la sintesi richiesta dai nostri tempi, e da lui felicemente attuata. Oltretutto, con totale larga disponibilità nei mezzi di intervento, per cui, accanto ai balocchi fieri della loro terza dimensione, ci sono pure i dipinti addirittura affidati al colore a olio, ma anch’essi nati attraverso l’ibridazione dei contrari. L’artista, certo con l’aiuto, come sempre, di squadre di esecutori fedeli, va in giro estirpando tessuti, pelli, capigliature, oppure tappezzerie, stoffe rutilanti, e ricompone il tutto in assemblaggi sempre imprevedibili. Il sarto taglia sul bancone vaste fette di stoffa e le ricuce liberamente. Tra tutti questi giochi di opposti, soprattutto negli ultimi tempi Koons ha affrontato anche il museo, e dunque sembra quasi porsi al seguito del citazionismo anni Settanta, con immagini di divinità, rifatte secondo quelle modalità volutamente stereotipate che erano già care a Canova, forse l’artista che più direttamente gli si può riconoscere come padre spirituale. Ma poi beninteso non tarda mai a scattare qualche nota contradditoria. Quelle sacre icone talvolta accennano a squagliarsi, come fossero di cera, oppure sulle loro teste preziose e auratiche fa capolino una palla, come fossero mutate in foche ammaestrate. In altre parole compare sempre un segno di volgarità, o di arida prosa quotidiana a riportare in terra quelle figure alate. Siamo insomma invitati alla festa continua di una totale reversibilità tra tutte le immagini che popolano il nostro affollato supermarket di ogni tipo di prodotti, alti e bassi, intellettuali e cheap, di moda o fuori moda. Ebbene, è proprio questo smisurato melting pot a fornire la stella polare per la navigazione di tutti gli artisti del mondo, invitati a partecipare a un banchetto ampio, ricco sena fine di possibili varianti.
Jeff Koons, retrospettiva, a cura di Scott Rothkopf, Parigi, Centre Pompidou.

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