Arte

La storia dell’arte gioca a rimbalzello

Tra poche ore parto per New York dove, il venerdì e sabato prossimi, 26 e 27 aprile, parteciperò a un convegno organizzato dal Center for Italian Modern Art (CIMA) attorno a una mostra di nostri capolavori della Metafisica, Valori Plastici, Novecento e altri fenomeni affini. Una bella schiera di giovani studiosi insisterà su quei temi, peraltro già ampiamente dibattuti, io invece andrò a svolgere un tema che mi è caro, quello dei rimbalzi che certe situazioni trovano nel corso dei decenni, o dei secoli. Naturalmente evocherò le coppie dialettiche tipiche dello storico dell’arte Woelfflin, da me sempre amate, a cominciare da quella dominante fra tutte del contrasto tra forme chiuse e forme aperte. Ma volendo se ne possono costruire altre, nella presente occasione può valere il contrasto tra il ritorno al passato e l’attrazione del futuro, che in termini attuali, e cari al mondo anglosassone, si può anche riportare ai termini del modernismo vs il postmoderno. Il fatto è che una situazione del genere, caratteristica del secondo e terzo decennio del Novecento, è “ritornata” circa mezzo secolo dopo, in cui il ruolo del Futurismo, o in genere delle avanguardie ruggenti, è stato assunto dall’Arte povera, cui jnfatti Germano Celant era stato tentato di dare il nome di neo-futurismo, mentre il movimento in senso contrario si è caratterizzato attraverso i gruppi denominati, da me, dei Nuovi-nuovi, da Calvesi e altri degli Anacronisti, e infine da Bonito Oliva, della Transavanguardia. Ovvero, la storia dell’arte, come di ogni altro fenomeno culturale, conosce delle oscillazioni pendolari da un estremo all’altro. Col rischio, però, che oscillazioni del genere, se compiute, come avviene davvero nel pendolo della fisica, si mantengano su un medesimo piano, generando un effetto statico, immobilista. Ma già lo stesso Woelfflin aveva ben compreso come questo asse orizzontale di scorrimenti si potesse comporre con uno verticale del divenire temporale, dando luogo a una curva spiralica. Per cui, se due situazioni vengono a ricalcare in apparenza certi aspetti affini, la cosa avviene, per la seconda a un’altezza, per così dire di sorvolo, o se vogliamo ricorrere a un contagiri, è come se si fosse compiuto qualche giro in più. E c’è pure la similitudine del rimbalzello, di un sasso piatto scagliato sul pelo dell’acqua che dà luogo a una serie di rimbalzi, ma via via più deboli e leggeri, anche se si allargano le onde di rifrazione. Ovvero, più quantità e meno qualità. Io ho puntualizzato effetti di questo genere in una mostra effettuata nel 1974 al milanese Studio Marconi, parlando di una “ripetizione”, che però deve essere anche “differente”, accompagnata cioè da indici di variazione rispetto al modello di partenza, per non dar luogo a stucchevoli esiti prevedibili. In questa animata vicenda c’è però un eroe “tutto d’un pezzo”, Giorgio De Chirico, che per tutta la sua carriera è stato il paladino di una equazione a una sola variante, l’originario contrapposto all’originale, all’innovazione perseguita ad ogni costo. In proposito mi sono valso di una similitudine, proponendo di vedere in lui il visitatore sistematico di tutte le stanze di un museo ideale, con curiosi effetti sul pubblico, anche dei più agguerriti critici. Finché egli ha rivisitato le stanze “buone” del museo, dove stanno sia i prototipi dell’arcaismo greco-romano o del nostro Quattrocento più nobile, tutto bene, dieci con lode, ma quando, seguendo il suo coerente percorso, l’artista ha preteso di rivisitare le stanze dedicate al barocco e al naturalismo, apriti celo, è venuta la sua condanna, al limite dell’irrisione, il che però lo ha lasciato imperturbabile a continuare nel suo programma metodico. Con una tappa finale in cui egli ha rivisitato se stesso, ovvero le sale “buone” della Metafisica, ma dove ha pure introdotto un opportuno indice distanziante, e allora ha colto un rinnovato spirito dei tempi, degli anni ’70, allietati dai cartoons, e dalla TV a colori, e dunque, immagini chiare, tracciate coi colori tipici della congiuntura postmoderna, gialli zafferano, rosa fragola, verdi pistacchio. A risultati di questo genere egli è stato raggiunto, ancora una volta, da artisti in fuga dalle secche di un avanguardismo duro e coriaceo. Allora, ai tempi della Metafisica ferrarese, era stato raggiunto da Carlo Carrà, mentre sulla stessa lunghezza d’onda viaggiava pure Gino Severini, battendo su quel traguardo lo stesso Picasso, quando anche lui aveva momentaneamente ripudiato le prodezze di specie cubista ritrovando un classicismo perfino scandaloso. Si sa bene che tutto ciò si è ripetuto all’alba degli anni ’70, quando Giulio Paolini aveva invertito la rotta neoavanguardista, neofuturista dei colleghi dell’Arte povera, rivolgendo gli stessi strumenti concepiti nel ‘68, ovvero fotografia, bianco e nero, installazioni spaziali, a risvegliare i classici addormentati in qualche museo gravido di onori. Poi erano venuti dei seguaci più giovani e più arditi che avevano infranto il tabù sessantottesco di rinunciare alla pittura, rilanciandola invece, magari proprio con le tinte sature, di un purismo quasi lunare, che ritrovavano nei cartoni animati o nella TV a colori. Ecco quindi Salvo, Ontani, e tutta la valida schiera dei miei Nuovi-nuovi. C’era stato poi chi, vedi Carlo Maria Mariani, si era messo nel ruolo di devoto e scrupoloso copista di capolavori del passato, che però non esistevano nella realtà, dando così luogo a una folla di fantasmi, anche se in apparenza del tutto ligi alle formule antiche. Era un andare contro il corso del tempo, un darsi con giubilo a un convinto ana-cronismo. Ma tra i rimbalzi non poteva mancare anche quello dedicato a esiti in apparenza opposti alle eleganze della Metafisica, improntati invece a barbarismi, a selvaggeria, come già nei primi anni ’20 era stato fatto da Georg Grosz, da Otto Dix, e dunque ci stava un rimbalzo anche su questo fronte, subito condotto da Baselitz, da Kiefer, dai Neuen Wilden, con effetti di trascinamento sui nostri Transavanguardisti, Chia, Clemente, Cucchi, Paladino. Nell’occasione affermerò che quando si danno simili felici ritorni a un passato di gloria, l’arte italiana va a segno, consegue una palma di pieno successo. Ma anche negli Usa avvenne qualcosa di simile, soprattutto per merito della gallerista Holly Solomon, pronta del resto ad apprezzare i Nuovi-nuovi e ad esporli più volte nel suo spazio, che però era soprattutto consacrato al successo del Pattern Painting, con alla testa Bob Kushner. Scorgiamo in proposito una ennesima coppia dialettica degna del Woelfllin, tra la condanna tipicamente “modernista” pronunciata dall’austriaco Loos secondo cui l’ornamento è un delitto, e invece il pieno, convinto rilancio di questo aspetto, una delle affermazioni culminanti del clima postmoderno.

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