Arte

La Tour, una candela che trasina verso l’alto

Finalmente una mostra giusta, al Palazzo Reale di Milano, dedicata a Georges de La Tour (1593-1652), in cui lo scarso numero di dipinti sicuri eseguiti dall’artista (una quindicina) si giustifica con il numero ridotto di opere componenti il suo catalogo, fra l’altro insidiato da repliche, non si sa se per mano stessa del pittore o di seguaci attratti dal successo che in vita non gli mancò, anche se in seguito era calato il silenzio su di lui. Ne era stato riscosso solo nel 1934 per un primo rilancio in Francia, cui aveva fatto seguito nell’immediato dopoguerra una mostra milanese officiata da Roberto Longhi, dove il soggetto principale era il Caravaggio, anche lui, nonostante la sua poderosa stazza, rimasto vittima di un offuscamento plurisecolare. I capolavori di sicura autografia del La Tour, in mostra, sono accompagnati da altre tele di spiriti affini, almeno a livello tematico, mentre le pareti, rimaste forzatamente vuote, scandiscono frasi di critici che cui si deve la riscoperta dell’artista (Voss, Thuillier, il nostro stesso Longhi). Il tema dominante nel Francese, come si sa bene, è il luminismo notturno, il che giustifica che gli vengano subito accostati i motivi affini del fiammingo Gherardo delle Notti e di altri ancora. Ma quel soggetto, in lui, è di una forza trascinante, a differenza dell’utilizzo rivolto a ottenere facili effettismi di cui possono essere accusati altri “notturnisti” dell’epoca, pur come lui di derivazione caravaggesca. Le candele del La Tour innalzano la loro luce in tesa, perfetta verticale, dando a tutta la scena una forza ascensionale, e così imponendo come prioritario il motivo di un asse verticale che si impadronisce anche delle figure, le trascina con sé. In altre parole, l’artista francese non conosce la disposizione orizzontale o trasversale. Anche se ci dà scene di genere alquanto affollate (“La rissa tra musici mendicanti”), si può stare sicuri che queste allineano protagonisti tutti “stanti” in perfetta verticale, come se ognuno di loro avesse infilato un manico di scopa o fosse stato “impalato”. Il dominio di quella fiamma lucida, incandescente, svettante si porta dietro una seconda conseguenza, implica che quella fonte luminosa vada a verificare a corto raggio uno spettacolo, non solo di volti, ma più ancora di tessuti, consistenti in vesti, tonache, calzoni, da quant’altro poteva entrare nella moda dell’epoca, senza filtri schizzinosi tra l’alto e il basso dei ceti sociali. Infatti proprio questa ricognizione di stoffe condotta con un lume a corto raggio porta l’artista a deliziarsi soprattutto di farla strofinare su tele rozze, di abiti sdruciti, più di mendicanti o comunque di personaggi appartenenti al quarto stato, che di signori di rango elevato. Probabilmente, se il nostro Burri avesse condotto una ricognizione su questo suo antenato, vi avrebbe riconosciuto un anticipatore della messa in evidenza delle ruvide, slabbrate, sdrucite tele di sacco da lui stesso esibite. In almeno una tela, “Giovane che soffia su un tizzone”, il La Tour inserisce un supplemento, rispetto alla limpida luce di candela, facendo brandire al ragazzo un tizzone ardente, come fonte di una illuminazione supplementare, e in definitiva già per se stessa derivante proprio dalla combustione potenzialmente annunciata, ma non realizzata, dal lume di candela, come se quella fiamma fosse subito pronta a provocare incendi attorno a sé. Già si è detto dell’ottimo accompagnamento didattico di cui questa mostra gode, affidato a proiezioni parietali di massime memorabili espresse dagli storici dell’arte cui va il merito di aver riscattato l’artista da un lungo oblio. Tra questi ausili informativi, ci sta pure un’intervista–video affidata a Pierre Rosenberg, anche a nome di quanti, al Louvre, fra cui il già ricordato Thuillier, hanno contribuito al rilancio di questa figura dimenticata. Bisogna però guardarsi dal calcare troppo la mano, come in qualche misura succede all’intervistato d’eccellenza, non si può arrivare a dire che il La Tour sia stato il maggiore pittore del Seicento francese, così come, fatte le debite proporzioni e applicando al giudizio una specie di pantografo, non si può arrivare a dare un giudizio parimenti categorico neppure sul Caravaggio. Per ritornare in territorio transalpino, dove mettiamo l’immensa presenza di Nicolas Poussin? E in Italia, la scuola dei Carracci, col Reni, il Guercino, il Domenichino? Mentre Longhi, presso di noi, lavorava alacremente, e giustamente, per il rilancio del Merisi, nella stessa sede di Bologna, dalla cui cattedra universitaria se ne era appena andato, un suo collega di altra scuola, Cesare Gnudi, promuoveva appunto il riscatto dei Carracci e compagni, incontrando un riconoscimento a mezza strada, un po’ a denti stretti, da parte dello stesso rinnovatore delle fortune del Caravaggio. E anche, di riflesso, di quelle dello stesso La Tour, ragione per cui gli Italiani, e i Lombardi in particolare, si possono rallegrare per questo suo rilancio.
Georges de La Tour, a cura di F. Cappelletti e T.C. Salomon, Milano, Palazzo Reale, fino al 7 giugno, Cat. Skira.

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