Rispetto al Premio Strega di quest’anno mi è capitata la circostanza fortunata di dover mandare all’unica sede cartacea che mi è rimasta, l’”Immaginazione”, i due soliti pollici. Ne ho approfittato per dedicarli entrambi all’appena giunto responso dello Strega, dichiarando, secondo il mio solito muovermi in controtendenza, che da anni non si era vista una cinquina così debole, per cui comunque il referto era da rovesciare. L’unica opera di un certo livello era quella di Nucci, a seguire le altre in ordine inverso rispetto alla votazione ufficiale, col vincitore Cognetti da mettere all’ultimo posto. Succede così come già l’’anno scorso che il Campiello può funzionare da vendicatore incoronando qualche vittima del confratello pur in genere considerato superiore di grado. Quindi è stato bene che nel 2016 il riconoscimento maggiore sia andato a Simona Vinci, anche se non con la sua opera migliore. Su questa falsariga mi auguro che quest’anno il riconoscimento non sfugga a Mauro Covacich, con la sua “Città interiore”, a risarcimento dello Strega sfuggitogli due anni fa. Ho pure già dato un giudizio abbastanza positivo, su queste pagine semi-clandestine, alla concorrente Alssandra Sarchi, “La notte ha la mia voce”, opera ben condotta ma alquanto fragile, non credo che possa puntare al posto maggiore in graduatoria. Laura Pugno è una mia vecchia conoscenza, andrò a vedere con molta curiosità come si presenta l’ultima sua produzione, “La ragazza selvaggia”. Non so nulla di Donatella Di Pietrantonio, “L?arminauta”, da leggere e valutare nella prossima vacanza agostana. Mi tocca ora parlare di Stefano Massini e del suo “Qualcosa sui Lehman”, molto probabile concorrente alla vittoria finale, se non altro per la sua mole di più di 700 pagine, e per l’autorevolezza del narratore, a dire il vero sfuggitomi, forse per la sua collocazione nell’ambito del teatro, da me poco frequentato, dove egli se ne sta ben piazzato, addirittura nei panni di erede di Luca Ronconi, cui in effetti l’opera è dedicata. E a quanto pare è ben nota all’estero, in cui ha mietuto consensi a bizzeffe, come risulta dalle citazioni nel retro del libro. Cominciando la mia analisi in proprio, dirò che il titolo è ironico, con quel “qualcosa” di limitativo, mentre si dovrebbe leggere “tutto”, da voce enciclopedica, da wikipedia, sui Lehman Brothers, sì, proprio quella banca il cui crollo è stato al centro della depressione partita in quel momento, 2008, da cui non siamo ancora del tutto usciti. Osservo quindi che siamo di nuovo in un’area di sospensione tra il vero della storia e il verosimile spettante alla poesia, che è il dubbio amletico da cui risultano afflitte tutte le attuali autonarrazioni a pioggia. Qui non è il caso di “auto”, in quanto Massini di suo non ci mette proprio niente, ma segue pedissequamente i fatti della poderosa famiglia, in tutti i molti risvolti, accenni di crisi, passi avanti, marcia progressiva verso successi sempre più clamorosi. Non c’è quindi alcun estro immaginativo, in questa sterminata distesa di riscontri puntuali, affidati a una lunga sequela di nascite e morti, tanto che per seguirla bisogna tenere d’occhio la lista dei personaggi, l’albero genealogico offertoci proprio in apertura, con un curioso limite, incomprensibile, che cioè quel diligente diagramma è stato privato al completo delle presenze femminili. Eppure i vari modi con cui i pupilli della fortunata dinastia si sono conquistati i cuori delle mogli, sempre tenendo in vista lo scopo della fortuna crescente da inseguire, offrono un motivo di interesse, e pure di divertimento, dando prova di un estro che però, ancora una volta, non si sa in che misura accreditare al narratore o invece alla cronaca nuda e cruda, fedelmente ricalcata.
Massini ha ritenuto di conquistarsi un posto in proprio presentando questa materia soffocante per rigoglio sotto forma di ballata, ma il genere risulta improprio, a mettere in tavola tanta roba. Mi viene in mente l’aneddoto dell’angelo che, a un Agostino pensieroso nel meditare il dogma dell’infinità di Dio, gli fa presente che sarebbe come pretendere di i svuotare il mare a colpi di cucchiaino. Lo stesso si potrebbe dire anche per questa saga della grande famiglia, lo sbocconcellarne le vicende in tanti frammenti certo ravviva una piatta cronistoria, ma alla lunga stanca, invita a saltare i troppi passaggi intermedi, a cercare di estrarre il succo di tante vicende dispersive. Il tutto poi mi sembra, curiosamente, in piena dissidenza rispetto a una logica teatrale. Mettere in scena una simile miriade di personaggi richiederebbe una intera schiera di attori, roba da far tremare le vene e i polsi a qualsiasi produttore e regista. Vero è che proprio il padrino di questo opus magnum, Ronconi, era solito mandare in rovina chi avesse avuto la temeraria idea di mettere davvero in scena i lavori da lui escogitati. Il nostro Massini ci ha provato, ma non so quanto sia riuscito nell’impresa. Confesso che personalmente non ho retto a quel ritmo a singhiozzo, a quel minuto sgocciolio dei fatti. Tanto, si sapeva in partenza che la “family” sarebbe sempre stata unita e concorde nel procedere da un affare all’altro, dal cotone grezzo al caffé ai treni agli aerei, culminando nel sistema bancario. In fondo, c’è davvero del dramma, e un’autentica temperatura teatrale, quando nelle ultime pagine i membri della dinastia tornano tutti in scena, i vivi e i morti, slittando dall’ordine terreno cui si erano sempre attenuti verso una dimensione metafisica.
Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman, Mondadori, pp. 773, euro 24.