Arte

Max Ernst, rappresentante totale del Surrealismo

La famiglia Mazzotta ha proceduto a una intelligente ripartizione di responsabilità, il padre, Gabriele, che per mezzo secolo è stato uno dei principali editori di cataloghi d’arte, ha ripartito le sue competenze tra il figlio Antonio, avviato a una carriera accademica e alla curatela di mostre storiche, dedicate per esempio a Tiziano. e la figlia Martina, a cui ha affidato la sua eredità e competenza in merito all’arte contemporanea, come lei è venuta facendo molto bene, dapprima con due mostre al Palazzo Magnani di Reggio Emilia, partendo da Kandinsky e arrivando fino a John Cage, quindi con una sintesi su Jean Dubuffet, che per completezza ha lasciato ammirato anche un competente in materia come me. Ora il culmine, con la conquista del Palazzo Reale a Milano e una esposizione di grande completezza dedicata a Max Ernst, l’artista più ambiguo dell’intero clima surrealista, di cui ha coltivato le molte maniere, accompagnate da un fascino personale che gli ha consentito anche diversi matrimoni di alto bordo. Come accennavo, nelle sale di questa esposizione, giudicate di più alto specialismo, si respira un’aria ben diversa rispetto all’affastellamento del pubblico che, a pianterreno, ci accalca attorno alle rare opere di Bosch. Qui un pubblico competente è in grado di accostarsi alle opere, a contemplarle e a giudicarle con occhi propri. Domina soprattutto una accurata raccolta di tutte le prove grafiche degli inizi dell’artista (1891-1976), inventore della tecnica del frottage, già in buona misura affidata al caso, col ricalco su fogli di carta dei bitorzoli, increspature, piccoli rilievi di un sottofondo costituito da qualche superficie aspra. accidentata. Ne veniva una sorta di spartito dalle mille righe si cui l’artista iscriveva delle figure allampanate, del tutto in linea con la magrezza e l’austerità dei rilievi che andavano a movimentare. Ma poi Ernst ha compreso quanto fosse limitato questo suo austero ricorso al bianco e nero, e alle risorse del caso. Si è comportato come un agricoltore che irrora le risaie, appena spuntano i primi segni dei vegetali, facendovi affluire un’onda di piena. Fuor di metafora, Ernst ha scoperto il fascino del colore, invadendo i suoi recinti con screziature rosse, gialle, blu, o anche creando il fascino di notturni dominati da qualche luna misteriosa e carica di presentimenti. Su quel suo magro spartito egli non ha mancato di iscrivere i suoi omaggi a De Chirico e a Magritte, ma sempre scarnificandoli, ricavandone delle ombre leggere e immateriali. Finalmente, ma siamo ormai nei tempi del dopoguerra, quando i più giovani colleghi della Scuola di New York si davano all’Espressionismo astratto, egli ha trovato il suo modo di sfidarli e di rispondere, senza essere da meno, Mi sento di interpretare questo passaggio con una nuova metafora molto prosaica e banale. Si immagini che su quelle stecche dei suoi precedenti esercizi grafici egli abbia posto come dei lembi di abiti, di drappi, di altre superfici multicolori, lasciando che il vento, o il caso se ne impadronisse, provvedendo a sbrogliarli,   secondo una libera casualità, nello stesso tempo lasciando del tutto la magia del colore a farla da padrona. Questo un modo per far sì che il Surrealismo scavalcasse la metà del scolo e si inoltrasse nei nuovi tempi.

Max Ernst, a cura di Martina Mazzotta e Jurgen Pach. Milano, Palazzo realr, fino al 26 febbraio, catalogo Electa La mostra andrà poi in sedi francese e ingese.

 

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