Letteratura

Michela Murgia non riesce a saltar fuori dalla Sardegna

Sono in presenza della recente prova di Michela Murgia, “Chirù”, e mi chiedo se la scrittrice sarda sia riuscita a fare un passo in avanti, a staccarsi dal “piccolo mondo antico” della sua isola, dove ha patito l’influsso di un verismo d’altri tempi, evidente nella sua prova precedente e di maggior successo, la “Accabadora”, storia di una mammana alla rovescio, dedita cioè non già a sopprimere i feti non graditi, bensì a rimandare al creatore i malati terminali: con accanto a lei una povera orfanella adottata, che quando conosce l’orribile verità, cerca di fuggire recandosi sul continente, in una Torino avanzata e in regola con i nostri attuali parametri di vita, ma se ne sente respinta, e ritorna quindi nella terra avita riprendendo la malsana professione della matrigna, divenendo a sua volta una rassegnata “accabadora”. In quest’ultimo prodotto, invece, si parte da una protagonista, Eleonora, che sembra perfettamente ambientata nel nostro mondo, ai più alti livelli dell’intellettualità, infatti ci appare dedita a fare l’attrice, il che le consente di partire per ambiziose tournées in varie capitali europee, e in genere a passare da un ricevimento all’altro, in un clima di pieno conforto e agio sia materiale che intellettuale. Al punto da farsi a sua volta maestra di vita, nei confronti di un giovane rozzo e di poca fortuna in partenza, il Chirù del titolo, ma pieno di buone qualità potenziali, che si propone anche lui di sviluppare nel mondo dello spettacolo, avido di apprendere le mosse giuste per dare la scalata al potere e per affermarsi tra la gente che conta. Ammettiamo che la narratrice evita la scontata soluzione di portare la maestra-chaperon e il giovane intraprendente a buttarsi l’una nelle braccia dell’altro, ma è pronto un ripiego, ovvero la ben introdotta conduttrice della storia incontra sulla sua strada un personaggio come lei, ben inoltrato in una carriera colma anch’essa di successi nel mondo dello spettacolo, da cui gli viene ogni possibile soddisfazione. Purtroppo però tutto questo versante della storia appare falso, stereotipato, prigioniero di schemi convenzionali, mentre se la vicenda trova qualche margine di sincerità e di forza, è proprio quando si ritorna indietro, all’infanzia e adolescenza che Eleonora ha trascorso nel natio borgo selvaggio. Le uniche figure autentiche di questa narrazione sono il genitore della protagonista, nella sua durezza implacabile, da padre padrone, sempre pronto a smorzare ogni impulso di vita nella figlia, a cominciare dalle prime esuberanze di ordine erotico-sessuale, magari ancora del tutto involontarie, come quando egli copre le nudità pur innocenti che la bambina mette in mostra nel sonno. Duro è il referto finale pronunciato ai danni di questa figura di genitore: “mio padre… perso lo avevo da sempre”. E pure autentici, accanto a lei, sono il fratello, costretto dall’autorità paterna a tenersi la coda fra le gambe e a svolgere una parte passiva, priva di slanci. Commovente anche il profilo della madre, tacita vittima della brutalità del coniuge, pronta ad accettare con sottomessa e muta pazienza la croce della solita malattia del secolo, il cancro, sopportando rassegnata un trattamento chemioterapico e infine andandosene in sommesso silenzio. Naturalmente questi sono squarci che la regia autoriale della Murgia fa trapelare tra le righe, quasi senza crederci troppo, considerandoli inadeguati rispetto al ben diverso profilo che si sforza di conferire alla sua eroina, e ai suoi eroi di carta, privi di spessore umano, se non fosse per qualche residua traccia presente nel giovane nei cui confronti la protagonista si erge a Pigmalione. Il Chirù eponimo, infatti, mantiene qualche palpito di autenticità, proveniente dalla sua situazione di disagio e arretratezza sociale di partenza, ma presto soffocato dal modello di conformismo sociale che la maestrina si affretta a imporgli.
Michela Murgia, Chirù, Einaudi, pp. 191, euro 18,50.

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