Arte

Mirabile epifania di due Madonne di Raffaello

Dopo le stimolanti visite, reali o virtuali, da me compiute per le vie di Bologna all’insegna di Artcity, è ora di affrontare, come direbbe il Pascoli, “paulo maiora”. Ma queste non rispondono certo all’offerta che ci viene dalla Galleria Borghese di Roma, rea di tre colpe, nell’ospitare una serie di opere della super-star Damian Hirst. In primo luogo, è una mostra che riprende quanto in modo molto più completo e legittimo era stato fatto nelle due sedi veneziane del magnate Pinault, Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Secondo, in uno spazio già pieno come un uovo questi inserti forzosi di opere dei nostri giorni ci stanno come i cavoli a merenda, ponendo grandi difficoltà a distinguerle dai legittimi inquilini di quelle sale magiche, e dunque, come non ho mancato di dire quando mi recavo davvero in visita a quelle rassegne, esse corrispondono più che altro alle ambizioni dell’allora direttrice Coliva, che non contenta del ben di Dio posto sotto la sua giurisdizione voleva mettere un piede anche nell’attualità. Infine, è senza dubbio imbarazzante per un campione dei nostri giorni essere chiamato a un confronto coi capolavori del passato in un dialogo pretestuoso e privo di sostanziali rapporti. Ma anche Foligno può essere bacchettata in questa mia rassegna dedicata alla condanna di passi falsi, dato che senza dubbio ha fatto bene in passato a chiedere in prestito dai Musei vaticani la Pala intestata proprio al nome di quella località, in cui il Divino Urbinate si era mosso all’altezza dell’affresco “Disputa del Sacramento”, eseguito nella prima delle Stanze vaticane, diffondendo allo stesso modo un cielo azzurrino, in cui un corteo di angeli attenua la propria presenza, fino a simulare dei tranquilli cirri primaverili pronti a dissiparsi in quel terso, limpido cielo. La Madonna e il Bambino se ne stanno a loro pieno agio, appena sollevati da terra, mentre i Santi e gli Angeli in basso assistono estasiati a quella leggera levitazione, abbarbicati per quanto li riguarda a una bella fetta di paesaggio verde, ubertoso. E’ un dipinto da mettere in accordo con le mosse parallele dell’ugualmente grande Tiziano, al momento, per esempio, in cui il Veneziano concepiva la Pala Gozzi. Purtroppo però tanta eleganza, leggerezza, ariosità vengono contaminate ora dall’assurda pretesa di accostare loro qualche prodotto dei nostri giorni, tra cui il pesante, mefitico Samorì, con le sue orride mescolanze uscite da qualche filtro stregonesco.
Molto meglio procede Capodimonte a Napoli, perché ci invita a concentrare la nostra attenzione su un capolavoro raffaellesco che gli appartiene, “La Madonna del divino amore”, che segna una tappa ulteriore nel percorso del grande Urbinate, quando siamo ormai verso la fine dei suoi giorni e la visione si fa più densa, robusta, terragna, aprendo la strada al Correggio, anche se resta il mistero di accertare se il pittore emiliano si sia mai recato a Roma per avere una epifania diretta della maestria del genio raffaellesco. Ma certo ora il Pargolo e il Battista irrobustiscono, rendono tondeggianti le loro membra, è il momento in cui Raffaello dà più ascolto a Michelangelo, e il Correggio dal canto suo rende i corpi ben torniti, ben in carne. Del resto, la scena è al chiuso, per evitare una dispersione atmosferica, anche la Madonna e S. Anna si accordiano alla pienezza dei corpi dei pargoli, accostano le teste quasi per rafforzarne la mutua presenza. E’ il momento in cui Raffaello, vicino alla morte, sta per mettere in corsa l’allievo infedele Giulio Romano, che si spingerà ben più avanti nell’ingrossare e deformare i corpi. Da notare inoltre quella misera finestrella che costituisce l’unico punto di fuga, di apertura al cosmo, quasi che il vorace Raffaello avesse deciso di rubare il mestiere al Savoldo, che proprio in quel momento entrava in lizza per conto suo.

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