Ancora una volta mi valgo del proclamato diritto di sostituire il solito esame di un’opera narrativa con un suo equivalente filmico. Il 2 giugno, ricorrenza della nascita della Repubblica, ci ha regalato la visione del capolavoro di Roberto Rossellini, “Roma città aperta”, un film che ovviamente non era sfuggito alla mia attenzione negli anni giovanili, ma si sa bene che !repetita iuvant”, tanto più che proprio in questi giorni sto scrivendo un saggio sulla Narrativa nostrana del secondo Novecento, dopo la puntata dedicata al periodo precedente, e dunque mi trovo a dover passare in rassegna i vari romanzi e racconti dedicati alla Resistenza, alle lotte partigiane, alla repressione nazifascista, da Vittorini e Pavese alle riprese fornite da Fenoglio, Cassola, altri ancora. Il confronto riesce del tutto a vantaggio del linguaggio filmico, il cui dato visivo e sonoro dà completezza, tangibilità, irruenza alle varie scene, laddove la testimonianza letteraria appare sempre più incerta, parziale, sottomessa a certe rigide scansioni ideologiche. Naturalmente a favore di questi caratteri più favorevoli al neorealismo cinematografico ci sta in buona misura la forza degli interpreti, Anna Magnani (Pina) rappresenta al meglio quell’inutile, crudele, barbarico eccidio che le infligge una scarica di mitra solo per il fatto che urla tutta la sua vicinanza alla vista del marito Francesco, che le viene portato via sotto gli occhi. Accanto a lei, giganteggia Aldo Fabrizi, sottratto al facile ruolo macchiettistico di campione della romanità più retriva e bonaria, elevato invece a una dignità tragica, a cominciare dal corretto eloquio in buona lingua italiana che gli è concesso di usare. Non stiamo a chiederci quale rapporto ci sia tra questa figura ideale e un qualche suo equivalente storico, non mi stanco mai di insistere sulla differenza tra il vero dei fatti reali, e il verosimile che appartiene invece alla creazione poetica di ogni specie. Giusti sono pure tutti gli altri personaggi, dalla fatua sorella della Magnani, alla corrotta Marina prigioniera della droga, che la spingerà nel ruolo di traditrice dei partigiani rifugiati in un appartamento di fortuna. Del tutto credibili sono le scene della tortura inflitta, nel famigerato carcere di via Tasso, ai partigiani tratti in arresto per farli parlare. C’è solo da chiedersi come mai anche nel loro caso non si fosse ricorso a quell’espediente già noto, qualche decennio prima, ai rivoluzionari cinesi, come ce ne parla Malraux nella “Condition humaine”, che si portavano dietro una pillola di cianuro per sottrarsi alle afflizioni senza scampo degli interrogatori. Qui, a uno di questi prigionieri in attesa dello strazio della tortura, non resta che impiccarsi. Il dignitoso Don Pietro, alias Fabrizi, sempre “compos sui”, mai sopra le righe, capace pure di conciliare la dignità sacerdotale con l’appoggio fornito i partigiani, farà una fine nobile e solenne, di venire fucilato alle spalle, immobilizzato su una sedia, salutato da un umile coro di fischi da parte dei solidali ragazzi della parrocchia.