Arte

Murillo, punto di svolta

Al solito prendo spunto pe queste mie riflessioni da Artribune, che qualche giorno fa recava la notizia che sotto una tela famosa di Estebàn Murillo si nascondono tracce di un suo precedente lavoro, come del resto tante volte capitava in passato. Naturalmente la notizia non mi tocca, data la mia mancanza di interesse per dati di filologia spicciola, mi dà però il destro di parlare di una figura-chiave del Seicento, non solo spagnolo. Intanto, parto da uno dei miei amati riscontri sulle date di nascita. Quella di Murillo è il 1618 (muore nel 1682), quindi si pone a un ventennio esatto dai due che gli vengono assegnati come maestri, Zurbaràn (1598) e Velàzquez (15999). Un simile salto cronologico non può mancare di avere i suoi effetti, infatti Murillo salta fuori dal cavaraggismo, di cui i suoi presunti padri erano senza dubbio dei pilastri. Ma un fatto del genere vale per tutto il panorama internazionale, tocca anche altri che pure nel caravaggismo o simili erano stati dentro, per esempio, da noi, il Guercino, e per rimanere alla Spagna l’artista detto lo Spagnoletto per antonomasia, Jusepe Ribera. Verso la metà di quel secolo pieno di fatti l’astro del caravaggismo sta declinando, mentre riacquistano terreno i Carracci, nella versione non già di Ludovico, che in fondo costeggia a prudente distanza la navigazione del Merisi, bensì di Annibale, con la sua apertura al classicismo, a una nobiltà di forma, il che gli diede, come ben noto, un grande successo presso i benpensanti e tradizionalisti del momento, ma era stata poi la premessa di una sua svalutazione nei tempi successivi, fino al momento in cui le coraggiose Biennali di Bologna volute da Cesare Gnudi avevano osato rilanciarlo, assieme a Guido Reni, ancor più spostato di lui verso esiti melliflui, quasi da rasentare il kitsch. Ebbene, questa è proprio la svolta di Murillo, in pieno disaccordo rispetto ai suoi presunti maestri. Infatti proprio il dipinto in questione sembra un santino devozionale, tanto è intinto di sacralità perfino untuosa e sdolcinata. E un smile referto si può ripetere per gran parte della produzione di questo artista, ma accanto ad essa ce n’è pure una di pittura di genere, dove, voltando lo sguardo, il pittore affronta scene di ragazzi di strada, intenti a imprese minori e poco raccomandabili, fino a venire ripresi mentre si spidocchiano le chiome. Si potrebbe dire che anche il cavaraggismo amava le scene di genere, ma le trattava in grande, e con accenti drammatici, con grande sbattimento di luci. Mentre la novità di Murillo sta nell’adottare dei formati minori, almeno in spirito, dando la precedenza a un gusto del racconto sciolto e spregiudicato come dato di fondo. A questo modo egli apre una pista che sarà poi raccolta da Luca Giordano e da tanti altri, lasciando agli ultimi eredi del Merisi, come Mattia Preti, lo stanco desino di calcare la mano per effetti di tenebrismo. Un’ondata di misure ridotte, e soprattutto presentate in chiaro, inonda la pittura europea, con tanti riscontri, che vanno dall’inglese Hogarth ai francesi Watteau, Boucher, Fragonard, cui non mancano di partecipare anche gli italiani sul tipo del Crespi e di Pietro Longhi, giungendo a presentare un autentico campione della categoria quale il Cerruti, che oltretutto si permette di riguadagnare formati in grande, quasi a dichiarare che gli esercizi in piccolo hanno esaurito i loro vantaggi. Ebbene, se di tutte queste nuove prospettive ( riportabili al barocchetto? Al rococò?) si vuole trovare un punto di svolta, è proprio al Murillo che ci si deve rivolgere.

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