Arte

Patrick Tuttofuoco, un balletto al neon

In qualche sede di Gagosian, la multinazionale a piovra per cui vale il detto di Carlo V, sul mio regno non tramonta mai il sole, è allestito un omaggio a Dan Flavin, più che dovuto, al minimalista che a differenza dei suoi colleghi invece di usare materiali duri, metallici, o lignei, come le traversine ferroviarie di Carl Andre, o tentare già le vie del virtuale, come Le Witt, ha utilizzato le bacchette del neon, assumendole proprio nel modo più generico e “popolare”, con rigore rettilineo, e anche tali da emanare colori essenziali, fino a sfidare il cattivo gusto. Tutte scelte decisive e coerenti, ma in cui Flavin si è anche attardato in ripetizioni senza fine. Per cui non è improprio ricordare un uso molto più libero che di quegli stessi tubi al neon aveva già fatto, forse primo fra tutti, il nostro Lucio Fontana. Uno di questi suoi liberi avvolgimenti, quasi come un lazo lanciato nello spazio, si può tuttora ammirare sulla facciata del Museo del Novecento milanese. Per fortuna Fontana non è rimasto a dominare solitario, in questa vicenda nostrana dei tubi al neon, ora può contare in un erede, i Patrick Tuttofuoco, che su una parete sempre di Milano, non mi è ben chiaro quale, né riuscirei a farle devota visita, nel mio attuale stato di deambulazione molto problematica, ha inserito un neon che si guarda bene di seguire i rigori rettilinei di Flavin, ma imita il nostro Gran Lombardo procedendo a falcate, a incurvature che oltretutto si incontrano tra loro, si intersecano, quasi si annodano, costituendo un a ramificazione vivace e prensile. Un modo insomma di dare ai neon una vitalità più in regola con tutti gli sviluppi successivi della ricerca artistica. A mezza strada non potremo mancare neppure di rivolgere un omaggio a Germano Olivotto e alle sue “sostituzioni”, intento legittimo di mettere i tubicini al neon al posto dei rami naturali degli alberi. Caso mai, per ritrovare una analoga leggerezza di mosse nel ricorso ai neon dovremmo rivolgerci non già a un austero benché legittimo protagonista della sperimentazione dell’Est, ma al più sfuggente e imprendibile esponente dell’area del Pacifico, Bruce Nauman

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