Arte

Perché privare gli Sforza di Leonardo?

Il Comune di Milano, in concomitanza con l’Expo, ha fatto le cose per bene, almeno per quanto riguarda la sua sede nobile di Palazzo Reale, allestendovi due mostre in sequenza rivolte ai migliori secoli dell’arte nella capitale lombarda. Al pianterreno troviamo “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza”, quindi, al primo piano, un monumentale ed esauriente, fin troppo, “Leonardo”. Ma, stranamente, non ci si è preoccupati di dare una giusta liaison tra le due, così abbandonando l’età sforzesca a un triste destino, essendo privata della magna presenza di Leonardo, e così venendo condannata a uno specialismo non allettante agli occhi del cittadino comune, per cui, almeno durante una mia visita, le sale al pianterreno risultavano quasi vuote, mentre poi, salito a rendere omaggio al genio vinciano, non riuscivo ad accostarmi ad ogni minima sua traccia, assediata da drappelli di visitatori e falso-estasiati contemplatori, anche perché arringati da volonterose guide, di persona o con audiotape. Tornando dabbasso, i pur ottimi curatori Mauro Natale e Serena Romano si sono trovati il compito facilitato per la sopravvivenza delle tracce della mostra paritetica a sua tempo gestita, nel lontano 1958, da una coppia straordinaria, Roberto Longhi e Alberto Dall’Acqua, sulle cui tracce è bastato riportare le inevitabili rettifiche e conquiste ulteriori di ordine filologico. E così, quella storia si dipana davanti ai nostri occhi, perfetta negli snodi, nelle presenze, nelle opere, da una metà del Trecento ancora dominata dall’influsso onnipervasivo di Giotto, capace di spingersi fino a Nord, con Giusto dei Menabuoi e Giovanni da Milano, su su fino alla stagione straordinaria che si deve denominare con etichette magari improprie finché si vuole, ma pur sempre calzanti, di gotico cortese o internazionale, o fiammeggiante, o semplicemente “tardo”, di cui comunque Milano fu sicura sede con primato almeno i Italia, grazie ai vari Giovannino de’ Grassi, Michelino da Besozzo, Bonifacio Bembo, e le presenze e i soggiorni di alti spiriti del tutto affini quali il Pisanello e Gentile da Fabriano. Mi pare però che i pur agguerriti saggi di curatori e collaboratori in catalogo non affrontino il grosso problema, da risolvere con ricorso a un sano materialismo culturale, ovvero con riferimento a un generale contesto sociale, perché mai le vicende di Milano e dintorni furono così diverse da quelle rintracciabili a Firenze? La città del Giglio risultò del tutto inferiore, o riluttante a tessere le fortune del gotico avanzato, lasciandole semmai solo alle soluzioni arcigne e compunte di Lorenzo Monaco, ma poi, varcato il capo del secolo e nei decenni successivi, fu pronta a sviluppare il grande capitolo della modernità (inutile, fuorviante ricorrere al solito termine generico del Rinascimento), cioè a impostare, lo sappiamo bene, con gli homines novi di cui l’Alberti fu pronto a trarre l’esempio, il codice della nuova e rivoluzionaria prospettiva. E’ vero che la marcia su queste piste innovative da parte dei fiorentini non fu esclusiva, in quanto anche il talento “fiorito” e sinuoso di Gentile da Fabriano fu apprezzato quando giunse all’ombra della cupola brunelleschiana, ma nessuno ha mai dubitato che quello impostato dall’Alberti e Masaccio e compagni fosse un grande vettore, tale da segnare davvero le “magnifiche sorti e progressive” di alcuni secoli di arte occidentale, mentre Milano non vi rispose minimamente. O riuscì a farlo solo mettendo in lizza un sicuro, sufficientemente articolato e “moderno”, nonostante i molti accenti ancora regressivi, Vincenzo Foppa. Perché questa enorme discrepanza di linee di marcia? Solo a Firenze il commercio, con le sue esigenze di razionalizzazione dei registri, in tutti i sensi, era dominante? E invece a Milano si esprimeva soltanto una tardiva, resistente regressiva cultura di corte, preziosa, compiaciuta di sé? Vogliamo cercare di rispondere a un simile interrogativo, al di là di riflessioni puramente stilistiche? Certo è che la stagnazione o il ritardo si prolungano, nella terra lombarda, sempre se facciamo riferimento agli svolgimenti fiorentini coevi, infatti anche nel Quattrocento inoltrato abbiamo le presenze certo decorose ed eleganti, ma pur sempre statiche, imbambolate, sommarie dei vari Bergognone, Butinone, Zenale, imparagonabili ai loro coetanei che si muovono in ambiente fiorentino, se si pensa alla squadra dei Botticelli e Ghirlandaio, per parte loro perfin troppo mossi, dediti a un descrittivismo minuto ed analitico.
La situazione milanese cambiò per merito dell’ultimo Sforza, Ludovico il Moro, che ebbe l’enorme merito di chiamare a corte il massimo frutto della fiorentinità, appunto Leonardo, addirittura più avanzato rispetto ai colleghi coetanei rimasti a impreziosire la terra d’origine. E’ dunque un grave torto della mostra, inflitto anche alla memoria di quel lontano fantasma, non aver sentito l’obbligo di mettere anche qua una qualche traccia o impronta del grande toscano, tanto per consentire ai visitatori di affrontare il periplo delle stanze superiori avendo già un viatico opportuno. L’errore strategico di questa assenza è accresciuto anche da una ben scarsa presenza dell’altro mattatore che fece grande la Milano sforzesca, il Bramante, qui presente appena con uno dei suoi fieri mascheroni, comunque capaci di mandare all’aria gli asfittici equilibrismi dei vari Bergognone e Butinone. Risulta incomprensibile la decisione presa solo pochi mesi fa dalla soprintendenza di Brera di dedicare appunto al genio marchigiano, co-protagoinista col Vinci dell’introito più coraggioso alla maniera moderna, una sorta di personale, fra l’altro collocata in una cripta artificiosamente ottenuta nelle ampie sale del museo. Quanto sarebbe stato più appropriato che quella rassegna, con le scarse ma sicure opere del Bramante pittore, fosse stata posta a coronare la presente rassegna, magari anche a compenso della forzata assenza dell’altro protagonista d’eccezione.
Ma saliamo pure le scale, portiamoci ad ammirare l’amplissima rassegna dedicata a Leonardo, col sottotitolo legittimamente ambizioso di aver voluto programmare “Il disegno del mondo, a cura di due valenti specialisti quali Pietro Marani e Maria Teresa Fiorio. Tutto bene, il non specialista si inchina davanti alla professionalità altrui, tenta di insinuarsi nella calca della folla per gettare qualche occhiata di straforo alle tante testimonianze. Però c’è una cosa che non va, siamo alle solite, almeno per quanto mi riguarda. Avevo già offeso il quieto vivere del leonardismo ufficiale osando insinuare una nota di dubbio circa l’autenticità della “Dama con l’ermellino”, in una notarella affidata all’”Espresso”, dove a quei tempi, quando quella tavola venne esposta in gloria, collaboravo. E già allora sfiorai il licenziamento in tronco, per lesa maestà, per quel dubbio rispetto a un sacro testo leonardesco, anche se non mancavo di collegarmi a una tradizione già esistente, c’erano prima di me studiosi che avevano attribuito quell’opera al Boltraffio, tra questi perfino il Berenson, che però si era piegato alla pressione dei colleghi ed era rifluito nell’attribuzione maggioritaria. Questi dubbi hanno gravato anche sulla “Belle Ferronnière”, che invece è il ritratto di cui la presente mostra si fa vanto ed assume addirittura come portabandiera, al punto da dedicargli l’onore della copertina nel voluminoso catalogo Skira. Ma il guastatore che qui scrive ritorna a colpire, si schiera ancora una volta con la linea degli oppositori, anche se tacitati dalla turba inferocita dei legittimi custodi dell’ortodossia interpretativa. Il Leonardo che proprio a Milano stava concependo quel trionfo dello sfumato, della corrosione atmosferica, posti a dominare nel Cenacolo, non poteva concepire ritratti, come i due in questione, dove invece la figura appare solida, piena, rotondeggiante. O si dovrebbe supporre in Leonardo un talento disposto a compiere giri di valzer, ad adottare stili tra loro contrastanti, il che però sarebbe rendere offesa alla ferrea coerenza del suo percorso. Il bello è che proprio questa mostra espone, in altra sala, dei Boltraffio che, per chi non è cieco o vittima di pregiudizi, appaiono del tutto in linea con la “Belle Ferronnière”. Si osservi una “Madonna col Bambino”, da un Museo di Budapest, p. 439 del catalogo, o un “Ritratto di Dama”, che sembra già una ”Belle Ferronnière”, solo un po’ girata sulla destra. Ma il Boltraffio è considerato un minore, e dunque non è degno che gli si attribuisca qualche capolavoro, questo non può che appartenere al grande genio, e pazienza se la ragione stilistica “nol consente”, questa è una pignoleria da riservare a pochi impenitenti bastian contrari.

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