Letteratura

Pupi Avati, il buon diavolo tenuto a freno

Di Pupi Avati avevo lodato, su queste pagine semiclandestine, il primo romanzo, “Il ragazzo in soffitta” e il successivo “Il signor diavolo”, il primo senza riserve, dato che in fondo il grande regista, specializzato in storie che si consumano in interni borghesi, vi aveva piazzato un “giallo” non certo inferiore a quanto oggi fanno senza sosta i nostri giallisti di professione. Avevo detto bene anche della seconda prova, ma ora lo posso dire, un po’ a denti stretti, non del tutto convinto, perché mi è sembrato che gli spunti, pur brillanti, rimanessero alquanto scuciti, non ben concatenati, il che si è riflesso anche nel film che il grande regista ne ha tratto. Forse lui stesso si è reso conto di quel grado di incompiutezza, tanto da ritornare sui propri passi, nell’attuale “Archivio del diavolo”, ma riempiendo i vuoti, rispondendo ai molti quesiti rimasti in sospeso, con l’aiuto di una moltiplicazione di personaggi, che oltre a rendere più comprensibili i fatti pregressi, aprono tante altre vicende, tanto da avergli fatto avvertire la necessità di dotare il romanzo di un dettagliato elenco di “dramatis personae”, quasi per evitare che tra tanta varietà di vicende intricate il lettore si possa smarrire. Intanto, forniamo subito a chi si avvia alla lettura di quest’opera una rassicurazione, la parte del diavolo è trattata con molta discrezione, uno spirito laico la potrebbe addirittura espungere. Tanto per incominciare, ci viene detto che cosa è capitato all’eroe, o anti-eroe della vicenda precedente, a Furio Momenté, burocrate grigio, insignificante, inviayo nella provincia veneta a svolgere un compito più forte di lui, attenuare l’impressione provocata da un barbaro delitto avvenuto all’ombra di una famiglia nobile del luogo, e buona sostenitrice della DC. Il “missus dominicus” aveva fallito nella sua missione, scomparendo quasi nel vuoto. Ora ci viene detto che era caduto in un oscuro pertugio esistente all’interno di una chiesa, senza più essere in grado di risalire alla superficie, costretto a morirvi di fame, e addirittura a cibarsi dei miseri resti di una neonata, sepolta in quell’abisso, e vittima proprio di uno di quei turpi fatti su cui il funzionario era stato chiamato a indagare. In proposito può intervenire qualche influsso diabolico, ma nella forma ben nota dell’orrore di scoprirsi sepolti vivi, quel destino atroce che lo scrittore statunitense Edgar Allan Poe temeva più di ogni altra cosa e che, a quanto ci vien detto in queste pagine, ha colpito il narratore russo Gogol, come risulta a un altro impiegato, sul tipo del Momenté, addetto a sorvegliare gli ingressi in un sottoscala, conducente nell’archivio agitato nel titolo. Anche questo grigio burocrate passa il tempo scrivendo una biografia del grande autore russo, e indagando sul mistero di quel suo rivoltarsi nella tomba. Del resto, quasi per questioni di affinità di situazione, proprio questo modesto custode ha la visione di un morto vivente, crede di scorgere proprio il Momenté intento a risalire dalle tenebre dell’archivio in cui era confinato. Ma la realtà ci dice che il suo cadavere se ne stava in quella sepoltura lontana, e scoperta solo casualmente. Con ciò, in definitiva, terminano gli influssi di specie diabolica o soprannaturale, e passiamo all’escussione di tristi, squallidi casi di vita comune. Per esempio di un sacerdote, Don Stefano Nascetti, la cui esistenza è stata per sempre rovinata dall’aver assistito a un bestiale accoppiamento della madre con un malvagio personaggio, tale Saintjust, pronto a fare un uso iniquo dei suoi poteri governativi. Nello stesso tempo il timido sacerdote è perseguitato da una donna, infelice in quanto il marito la tradisce con un giovanotto, obbligandola ad accettarlo nel loro letto, in una convivenza a tre. La donna si suicida, o è vittima di un omicidio brutale, magari compiuto proprio dal rozzo convivente, nella speranza di ricevere, attraverso il vedovo, suo amante, un premio assicurativo. Ma anche il nostro sacerdote può essere accusato dello stesso crimine, il che lo convince a ritirarsi in provincia, dove ritrova proprio la situazione rimasta interrotta nel romanzo precedente. I fatti, le vicende, i personaggi si moltiplicano, ma c’è un fil rouge, o noir, con qualche apporto del diavolo, a congiungerli, a richiamarli circolarmente in scena. Il prodotto è ampio, vivace, polimorfo, ben ordito, per cui, pur non contando nulla, mi sento di avanzare una candidatura a favore di quest’opera, la vedrei del tutto degna di riportare il prossimo Premio Strega.
Pupi Avati. L’archivio del diavolo, Solferino, pp.264, euro 16.

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