Arte

Rosai, quando la quantità diventa qualità

La solita visita virtuale di questi tempi sinistri, di lockdown degli spazi espositivi, provocato dal un pessimo ministro Franceschini, che invece di inveire contro Renzi dovrebbe rispettare meglio i suoi doveri, mi portano a Montevarchi, Palazzo del Podestà, dove, grazie a Artribune, ho scoperto che è in atto una mostra di Ottone Rosai, fino al 31 gennaio. Confesso di essere stato alquanto titubante se intervenire su di lui, che è uno di quei maestri del primo Novecento divenuti perfino stucchevoli a forza di venirci riproposti a ogni pie’ sospinto, in una pattuglia che oltre a lui stesso comprende ovviamente i Carrà, De Pisis e perfino Morandi. Un po’ meglio, perché tirati fuori dai depositi non troppo temo fa, ci starebbero i protagonisti del Novecento della Sarfatti, con Sironi in testa, ma anche in questi casi la noia delle ripetizioni per nulla differenti sembrerebbe essersene già impadronita. Tuttavia proprio la mostra di Rosai ora in atto si salva dalla stereotipia grazie al fattore della quantità, che oltre un certo limite riesce anche a trasformarsi in qualità. Vale a dire, che l’immagine di Rosai conforme e usurata per troppe presenze è quella di un omino o due intenti a percorrere stradicciole strette tra muretti, oppure di paesaggi dealbati, stinti, coperti come da una bava di lumaca. La selezione presente in questa mostra si salva, a mio avviso, proprio per il numero delle chiamate in scena, per esempio di questi suoi omarini, come attori di qualche pièce campagnola, in uno dei dipinti ne compaiono ben quattro, e ad aggiungere eccezionalità alla scena c’è anche il vederli compressi sotto un arco. In un altro di questi dipinti abbastanza singolari i personaggi diventano ben sei, fra l’altro sovrastati da una vistosa insegna di trattoria. Magari nel “bevitore solitario”, come dice il titolo, di attori chiamati alla ribalta ce ne sta solo uno, ma sovrastato da un enorme, svettante e insolito cappello a cilindro, come se nel compiere quell’atto di bassa normalità quotidiana, anche in questo caso il protagonista si sentisse chiamata a condirlo con qualche solennità, anche qui di gusto teatrale. Ci sono solo due signore in un altro dipinto, ma raccolte, compresse, circonvolute da una specie di bigoncia che appunto le comprime, ne spreme fuori, come da un tubetto di colore sul punto di consumarsi, tutte le cariche emotive. E che dire dell’accoppiata de “Il suonatore e lo zoppo”, anche questa con messa in scena abbastanza insolita, sia per il numero dei presenti, sia per le rispettive mansioni? Il suonatore sembra raccogliere un’eredità dal grande Chagall, quello buono, dei primi decenni del secolo, e lo zoppo aggiunge alla solita tipologia di ometti arzilli come insetti il dato vistoso di essere portatore di handicap. Insomma, e in conclusione, in questa serie di opere l’artista rafforza la sua appartenenza alla categoria, che molti vorrebbero inesistente preso di noi, dell’Espressionismo, ma sono ben consapevoli di una simile sussistenza i “Nuovi selvaggi” tedeschi produttori di un rimbalzo di espressionismo nel secondo dopoguerra, con Georg Baselitz in testa, che si dice apprezzi molto questo pioniere reperito nell’apparente addormentata e provinciale Toscana.

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