Tra qualche giorno la Galleria d’Arte Moderna di Roma dedica un giusto omaggio all’editore Vanni Scheiwiller. Non potendo parteciparvi di persona, non manco però al dovere morale di indirizzargli un ricordo di stima e di affetto attraverso questa via privata. Come per tanti altri, egli ha il merito di essere stato il mio primo editore, almeno per un’opera importante, in quanto, a dire il vero, nel 1962 un editore locale, Alfa di Bologna, aveva fatto uscire una mia monografia su Jean Dubuffet, artista che è stato una delle principali scoperte del mio intero curriculum. Ma con Scheiwiller pervenivo nella capitale dell’editoria nazionale, Milano, oltretutto in un anno magico per me, il 1964, in cui riuscii a dare testimonianza delle mie tre corde, la critica della narrativa, con “La barriera del naturalismo”, Mursia, la filosofia, con “Per un’estetica mondana”, il Mulino. Infine, col volumetto edito da Scheiwiller, la critica d’arte, che in definitiva sarebbe sempre stata la mia ispiratrice principale. Devo quindi riconoscere che quell’ uscita costituiva un passo prezioso sulla mia strada. Si trattava di una raccolta dei saggi che già avevo steso attorno al fenomeno allora dominante, l’informale, da cui il titolo, e anche la raffinatissima immagine in copertina, un disegno proprio di Dubuffet raffigurante un cane stilizzato, forse già avviato alla fase successiva dell’artista francese, ispirata all’Hourloupe. E a propiziare quell’uscita era stato il mio maestro sempre da me riconosciuto, Luciano Anceschi, un cui lusinghiero biglietto introduttivo mi aveva fatto approdare alla casa di Vanni. Sì, perché a distinguerlo, a fare la differenza stava proprio il carattere familiare con cui riceveva i suoi autori, nel salotto di casa, mi pare di ricordare che fosse sita in Via Melzi d’Eril. E quando i volumetti erano pronti, ci si sedeva assieme al tavolo del salotto buono, e lui stesso insegnava la difficile arte di come stendere le dediche da rivolgere alle varie personalità cui le varie copie erano dirette. Straordinario anche il sistema distributivo, affidato anch’esso a riti del tutto personalizzati, che nulla avevano a che vedere con le modalità industriali di cui ben presto, col crescere del nostro Paese, si sarebbe imposto in tutto quel settore. Vanni disponeva i libri dentro una borsa capace, e ne effettuava una consegna diretta, man mano che gli avveniva di recarsi nelle varie località e librerie con cui aveva una qualche consuetudine, E dunque, era una distribuzione prorogata nel tempo, ma affidata alla sagacia e conoscenza specifica del piazzista di lusso, che ben conosceva la sua clientela, e dunque le varie copie andavano a segno, non c’era il fenomeno penoso delle rese, che vanno a ingrossare i residui delle varie pubblicazioni, inducendo magari l’editore a macerare le eccedenze. Tutto insomma avveniva, da parte sua, nel segno dell’eleganza, dello stile, della personalità raffinata, di perfetto conoscitore della materia di cui si faceva sostenitore, e naturalmente accanto alla critica d’arte c’erano ben più numerosi i volumetti di poesie, destinati fin dal nascere a destare l’interesse e a fare la fortuna dei bibliofili. A ciò contribuiva anche il sottotitolo di queste edizioni, che era “All’insegna del pesce d’oro”, in cui compare la traccia di un altro merito che mi rende grato a Vanni. Egli era parente del grande Adolfo Wildt, allora trascurato da noi giovani ferventi di avanguardie e rigorismi, pieni di disprezzo per ogni residuo di storie lontane, ma coi col tempo ho dovuto riconoscere e apprezzare il valore di Wildt, scoprendo anche con meraviglia che era stato il maestro di Lucio Fontana, a cui forse, in un’opera pur redatta con un figurativismo tradizionale, aveva messo in mano una fiocina, strumento quasi anticipatore dei fendenti liberatori che poi il Lucio divenuto artista internazionale avrebbe fatto scattare al momento buono. Ma accanto allo scultore monumentale, maestoso, ieratico, in Wildt c’era pure un raffinatissimo disegnatore, che si valeva proprio di grafismi in oro, con un bellissimo contrasto con altri stesi in nero. Quell’oro, quella porporina, credo che siano rimbalzati nell’insegna della casa editrice del discendente, il quale oltretutto è sempre stato generoso nell’imprestarmi proprio alcuni di quei capolavori di grafica bicolore che erano rimasti nella collezione di famiglia, se in occasione di qualche mostra gliene chiedevo il prestito. Come è nella sorte dei primi amori, credo che ogni autore si sia poi allontanato da quella fucina, senza reazioni malevole da parte di Vanni, che forse assisteva benevolo, convinto, propiziatore alla inevitabile evoluzione dei rampolli che aveva tenuto a battesimo. Del resto, lui stesso col passare degli anni si era inoltrato per le strade di un ritmo più all’altezza dei tempi e del loro relativo progresso. Ma quel volumetto continua a spiccare nella mia biblioteca privata, come un cimelio, una reliquia, un santo protettor