Arte

Un convincente “tutto” Jim Dine

Il romano Palazzo delle Esposizioni dedica a Jim Dine (1935) una imponente rassegna, suppongo una delle più ampie e complete che mai gli siano state dedicate, sfruttando molto bene tutti gli spazi del pianterreno, o piano alzato dell’edificio, il giro delle stanze laterali, e anche l’ampio corridoio che conduce a un emiciclo finale. Nel mio passato ho già avuto occasioni di misurarmi con questo artista, a partire da una mostra degli anni ’70 che era riuscito a dedicargli, nonostante i suoi mezzi limitati, Franco Farina, dalla plancia di comando nel ferrarese Palazzo dei Diamanti. E aveva avuto anche la buona idea di cbiamarmi dal vicino Dams di Bologna, dove avevo la cattedra di Storia dell’arte contemporanea, a commentare l’iniziativa per il pubblico. Mi sono rivisto di recente, con qualche emozione, in una rassegna che la moglie Lola Bonora ha dedicato a Franco, in uno dei tanti spazi che la sua ingegnosità era riuscita a far nascere attorno all’ammiraglia dei Diamanti. Un video, in quella mostra, mi fa apparire quando ancora possedevo una folta criniera di capelli, e mi affiancavano due ottime collaboratrici, la mai abbastanza compianta Francesca Alinovi e Paola Sega. Già allora non avevo esitato a imboccare la pista giusta, spostando Dine dalla collocazione solita che gli si attribuiva di protagonista della Pop statunitense a quella fase anteriore, ma colma di potenzialità, che era stato il New Dada, coi due moschettieri, Jasper Johns e Robert Rauschenberg. Il nostro artista poteva figurare come buon terzo in quella eletta compagnia, magari con accanto anche Claes Oòdenburg, forse l’uno e l’altro partiti addirittura da qualche ricordo della precedente stagione dell’Espressionismo astratto, o per meglio dire dell’Action Painting. Infatti c’era già tanta azione, nelle opere del giovane artista, magari inserite secondo la modalità del ready made, per esempio certe vanghe, tali e quali, pronte per essere distaccate dalla parete e impugnate per dar luogo a un lavoro reale. Del resto, di fatto Dine è stato tra i protagonisti della fase degli happenings, o in genere delle performances, infatti l’ottima mostra romana, accanto alle opere appese nelle stanze laterali, presenta una fitta serie di monitor in cui sono registrate appunto le azioni da lui instancabilmente ideate e svolte. Ma accanto ai corpi reali di un delitto, cioè di un’azione tangibile, Dine praticava anche un gusto raffinato della pittura, sfruttando certi ricordi di una fase ancora informale allo scopo di apprestare una superficie accogliente a cui appendere i reperti oggettuali. Che beninteso non mancavano, come per esempio una scarpa, sospesa tra una resa pittorica e invece una emersione plastica. Questo stato di sospensione o di fertile ambiguità congenita ha accompagnato il Nostro per tutta la sua carriera, con scelte appropriate per conciliare le due spinte. Per esempio il ricorso, a lui consueto, ad ampie vesti da camera, accoglienti, avvolgenti, o addirittura a cuori, estratti ancora pulsanti, palpitanti, un “leit motive” che lo ha accompagnate per tutta la sua carriera, trattato in mille modi, attraverso il recupero delle mille astuzie del mestiere: litografie, incisioni, monotipi. Oppure rozzamente affidato a blocchi di paglia. Infatti in sintesi l’intero percorso di Dine può essere riportato a un viaggio continuo tra le due e le tre dimensioni, il che lo ha anche indotto a rasentare il clima della citazione, per esempio a offrirci dei reperti di statue classiche, delle Veneri, ma abbozzate in fretta e furia, a colpi di ascia, con una furia che si è abbattuta anche sui burattini del repertorio caro all’infanzia. Proprio l’ampia sala centrale accumula una serie numerosa di Pinocchi, di tutti i formati, appollaiati su trespoli, ma d’altra parte sempre pronti a rituffarsi, a schiacciarsi sulle pareti, in questo indefesso andirivieni. Come se all’origine di tutto ci fosse uno stagno policromo, iridescente, da cui l’artista trae i suoi corpi, ancora rabbrividenti di screziature cromatiche, O al contrario ve li affonda, a ritrovare uno stato di primordiale barbarie. Un simile processo di regressione a stati primitivi, a un certo punto ha riguardato anche le scritte, le lettere dell’alfabeto, forse per effetto di qualche stimolo proveniente dai più selvaggi dei Writers, Jean-Michel Basquiat, Keith Haring. In un campo del genere, non si dà più vistoso contrasto di quello con i modi secondo cui l’asettico “concettuale” Kosuth effettua i suoi recuperi scritturali, affidandoli a corretti caratteri, irrigiditi nella fredda luce dei neon. Invece le scritture di Dine intendono recare ben visibili le tracce del furore, del “sound and fury”, che da sempre presiede a tutti i suoi interventi, e dunque sono i degni comprimari dei cuori palpitanti, oppure sono le emissioni, candide, infantili della folla dei Pinocchietti, anch’essi arguti e petulanti.
Jim Dine, a cura di Daniela Lancioni. Roma, Palazzo delle Esposizioni, fino al 2 giugno. Cat. Quodlibet.

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