Letteratura

Una diabolica “panne”

Ancora una volta mi valgo della saggezza aristotelica, capace di darci una trattazione unitaria dell’epica e del teatro, cui oggi evidentemente corrispondono i generi della narrativa e del cinema, congiungendoli in un’ unica rete di peculiarità. Ovvero, piuttosto che andare a caccia di qualche romanzo, parlo di un film visto qualche giorno fa alla tv, un capolavoro di Ettore Scola, a sua volta un talento da mettere sullo stesso piano di Fellini, Antonioni, Ferreri. Si tratta de “La più bella serata della mia vita”, del 1972, ricavato dalla novella “La panne” del grande autore svizzero Friedrich Dürrenmatt, con un’interpretazione superba, neanche dirlo, di Alberto Sordi. Scola, poco dopo, nell’82, ci avrebbe dato un’altra straordinaria versione da un testo francese, “Ballando ballando”. Qui incontriamo un Sordi ovviamente nel pieno esercizio di tutte le sue virtù, ovvero dei vizi italici, codardo, presuntuoso, affarista fino al crimine, infatti via via che si confessa apprenderemo che in definitiva ha fatto morire con mezzi subdoli il suo principale ereditandone le ricchezze, e ora ci appare intento a trasportare in Svizzera un bel pacchetto di banconote, avvalendosi di una poderosa Maserati. Ma intanto, unisci l’utile al dilettevole, viene attratto da una amazzone in moto, misteriosa nel suo abbigliamento ricoperto di cuoio scuro, figura enigmatica che il nostro anti-eroe si dà a inseguire. Ecco però che viene bloccato dalla misteriosa “panne”, annunciata dal titolo originale del racconto. Nulla da temere, interviene prontamente un compiacente carro agricolo che trascina la vettura nel parcheggio di un confortevole castello, dotato di tutti i possibili conforti, dove lo accoglie una cerimoniosa e nobiliare accolita con tutti gli onori possibili, offrendogli una cena di gala da sfidare il miglior chef. Però si ricade in un copione abbastanza scontato dalle trame gialle, quei signori impeccabili in realtà sono una corte di giudici ora in pensione che attendono gli ospiti come fanno i ragni con le loro prede, per imbastire ai loro danni un processo, rivedendone tutte le magagne e infine giungendo a un implacabile verdetto di condanna a morte. Il nostro Sordi (Alfredo Rossi nel film) non capisce se si fa sul serio o sul faceto, passa una notte da incubo, di cattivi sogni, anche per la pesantezza del cibo ingerito, ma al mattino può tirare un respiro di sollievo, è stata tutta una burla, è stato intrattenuto in un resort di alto bordo, il processo era solo una aggiunta a un trattamento di favore, che però deve essere pagato ad alto prezzo. Del resto, il mattino è radioso, e l’auto, riparata, lo attende ai piedi della scalinata del castello. Tutto bene? No, fin troppo, il nostro faccendiere riparte allegro e disinvolto, ma calca un po’ troppo sull’acceleratore, e del resto ricompare l’angelo-diavolo tentatore, la fanciulla catafratta nella tuta nera. Sordi-Bianchi la insegue, ma esagera nella velocità, perde il controllo del veicolo, sprofonda nell’abisso. Non so se Scola in questo finale si sia ispirato a un episodio di “Quattro passi nel delirio”, di pochi anni prima, dove l’episodio con regia di Fellini adombra qualcosa di simile. In questo caso è un attore di grande successo, interpretato da Terence Stamp, che viene convinto a recarsi a Cinecittà con la promessa che gli daranno una fiammante Ferrari. Salito subito su questo mezzo, l’attore si sbizzarrisce in una sfrenata corsa in un paesaggio notturno illuminato a sprazzi dai fari dell’auto. Finché il folle pilota non tenta di varcare un ponte crollato, ma non vi riesce, un cavo ne mozza la testa, con cui il diavolo, sotto specie di una mefistofelica fanciulla dotata di un sorriso beffardo, si trastulla ammiccando verso di noi. Al confronto, Sordi- Bianchi si limita a sprofondare nel nulla.

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