Arte

Una eccellente antologia degli scritti di Aurier

Lodo senza riserve la decisione presa da tre miei ex-allievi, in ordine alfabetico Elisa Baldini, Gian Luca Tusini e Giuseppe Virelli, di curare un’antologia degli “Scritti d’arte 1889-1892” del francese Albert Aurier, fermi a quella data per la precoce morte dell’autore, che fu anche poeta, creatore per conto suo. Conoscevo bene il celebre manifesto che egli aveva desunto dall’esame dei dipinti rivoluzionari di Paul Gauguin, una carta dottrinale del Simbolismo, o, per dirla più da vicino agli aspetti visivi, dell’Art Nouveau e delle altre etichette confluenti. Presso di noi si parlò soprattutto di Liberty. In definitiva l’occuparmi a fondo di quell’incontro di sigle è stato il mio primo impegno storiografico, svolto nei lontani anni Sessanta. Ma mi era sfuggita, o non vi avevo pensato abbastanza, la “Prefazione” con cui Aurier aveva aperto un’antologia di se stesso curata con le proprie mani, dove giustamente se la prende col metodo fin lì dominante della critica di impostazione positivista, che vede concentrata negli interventi della triade triade Taine, Sainte-Beuve, Hennequin. Confesso che quella lettura mi ha reso cogitabondo, mi sono chiesto cioè se per caso il metodo da me tanto conclamato di materialismo storico culturale o tecnologico non possa offrire il fianco ad accuse similari, ma per fortuna mi sono risposto di no. Il limite pesante di quei tre storiografi è stato di rimanere vittime del determinismo, il male oscuro che ha macchiato la loro impostazione, cioè la tendenza a riportare il complesso al semplice, anzi, all’elementare, a un piano zero di cause basse, fisiche che influiscono su tutti gli sforzi di svincolarsene, per cui il livello delle idee, delle invenzioni innovatrici, resta invischiato entro quel letto di procuste. Secondo le loro concezioni, non ci si libera dai condizionamenti succhiati addirittura col latte materno. Resta tipica in tal senso la riflessione che Sainte-Beuve indirizza ai danni di Baudelaire, ne riassumo il senso, senza andarne a citare pari pari le parole: “figlio mio, devi aver ben sofferto da piccolo, per diventare così acido verso tua madre!”. Una balordaggine, una negazione che il talento emergente riesca a fiutare l’aria attorno a sé e a cogliere i lieviti di novità che vi si affacciano, come in effetti fu nel grande Baudelaire, capace di presagire tutte le novità psicologiche ed epistemologiche che avrebbero costituito l’anima del contemporaneo (anche se lui non conoscevo quel termine e si batteva per un “moderno”, comunque ben diverso da quello positivista, legato alla strategia di “un passo per volta”, negando la possibilità di coraggiosi balzi in avanti). Invece la mia metodologia, auspici i numi tutelari di McLuhan e Goldmann, predica la parità tra i vari livelli, ovvero le idee, nell’arte e nelle scienze, non vengono “dopo”, nascono alla pari delle svolte tecnologiche, sorreggendosi reciprocamente. E dunque, per venire all’esempio primario su cui indaga Aurier, magari per qualche anno Gauguin resta “condizionato”, imbrigliato nel fare analitico, pesantemente mimetico, che eredita dai fratelli maggiori Impressionisti, ma poi, seppure a fatica, spicca il volo, passa da un fare faticosamente analitico alla sintesi, come gli riconosce appunto il suo intrepido commentatore. E un medesimo criterio si comunica anche all’idealismo, per cui i vari Gustave Moreau e Arnold Boecklin avevano solo compiuto una sostituzione tematica, abbandonando i soggetti bassi e volgari a vantaggo di temi alti, ma trattandoli col medesimo passo analitico e perfetto mimetismo, per cui in definitiva non c’era molta differenza rispetto a un volgare Spaccapietre dipinto dal loro rivale Courbet. E dunque, bisognava accorciare il tiro, parlare di “ideismo”. Ma perché quella stretta, quel prevalere di un passo sintetico? Qui viene meno l’aiuto di Aurier, che in definitiva si limita all’avvistamento, a dichiarare che è così perché è così, e di questo gli va dato grande merito, infatti il critico militante deve fiutare l’aria attorno a sé, cogliere a volo la novità, che non deriva da quanto già esisteva ma cambia le carte in tavola. Qui però bisogna entrare in una navigazione più ampia di quanto non fosse alla portata del nostro Aurier, f la sintesi appare già sul finire del Settecento, col giudizio sintetico a priori affermato da Kant, in cui forse c’è la eco di una intuizione del campo elettromagnetico, la nuova realtà tecnologica che sconfiggerà il fare mimetico-analitico in cui aveva sostato quasi tutta l’arte ottocentesca. Anche se poi, come fu nel destino dell’intero Simbolismo, il giovane testimone di quella nuova modalità di pensare e di agire rimase sospeso tra terra e cielo, intuì che le istanze soggettive dovevano svincolarsi dall’asservimento ai dati fisiologici, affermare un loro impulso autonomo, come sarebbe accaduto di lì a poco con Freud, ma era inutile che quella giusta esigenza di soggettività guardasse verso l’alto, verso le stelle, meglio scavare in basso, aprire le porte all’Inconscio e simili. Per questo verso il soggettivismo, e lo stesso simbolismo predicati da Aurier, rimasero prigionieri di una rivoluzione mancata, bloccata a metà della sua parabola. Si aggiunga che era pure giusto mettere nel mazzo delle facoltà innovative il dovere di fare posto alla decorazione, anche se al momento, e nei decenni successivi, la tecnologia dominante delle macchine avrebbe preteso di soffocare quei vagiti. Dovremo quindi attendere i nostri tempi, addirittura il postmoderno, per avere la liberazione dal dominio dell’industrialismo pesante e per vedere riaffacciarsi quella esigenza di concedere via libera all’ornamento. Ma nonostante certi inevitabili limiti, la riflessione di Aurier permane valida, apre le porte al nuovo; e del resto, anche se solo su Gauguin riuscì a esprimersi al meglio, anche i giudizi su altri artisti, benché meno consentanei alla sua impostazione, sono acuti e ben centrati. Si leggono utilmente le pagine dedicate a Pissarro, Renoir, Monet, Van Gogh, Carrière, e si deve approvare l’abominio scagliato contro Meissonnier, in definitiva un pittore ligio ai precetti del passato regime, schiavo di un descrittivismo asfittico.
Gabriel Albert Aurier, Scritti d’arte 1889-1892, Mimesis, pp. 218, euro 20.

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