Arte

Una mostra molto completa, forse troppo, sui Macchiaioli

Anche oggi, come in altre occasioni, conduco una visita virtuale alla mostra sui Macchiaioli che la Galleria d’Arte Moderna di Torino aprirà, del resto tra pochi giorni. È un tema già tante volte percorso, così da dovermi chiedere se valesse la pena di riaprire quella porta che io stesso ho varcato in numerose occasioni, ma mi induce a una risposta affermativa l’ampiezza con cui quel fenomeno è indagato nella presente mostra, forse perfino in eccesso, e anche l’opportunità di ribadire alcune affermazioni che mi stanno a cuore. Come, tanto per cominciare, la proclamazione dell’unità dell’Impressionismo in tutta la cultura occidentale, di cui i Macchiaioli sono stati validi campioni. Per questa ragione mi ero molto compiaciuto quando il tempio dell’Impressionismo “alla francese”, cioè il parigino Musée d’Orsay, aveva osato porsi la domanda: “Les Macchiaioli. Impressionistes italiens?”, nel 2013, seppure con un precauzionale punto interrogativo. Io ero andato proprio in quell’occasione, se non in quella sede, in quanto la mostra, “noblesse oblige”, era stata dirottata nella sede minore dell’Orangérie, a proclamare che occorreva assolutamente togliere il punto interrogativo, dare alla frase una risposta positiva, a patto di sbloccare preventivamente quell’ “ismo” fondamentale da una usucapione a senso unico a favore del solo e solito Monet, come, ahimè, è avvenuto presso di noi ad opera di Marco Goldin, che ci ha inflitto non so quante mostre tutte poste nel sacro culto dell’autore delle Ninfee. Io invece, in una mia conferenza, ero andato ad apportare dei distinguo. Per esempio, chi è riluttante ad ammettere i nostri Macchiaioli nell’albo buono degli Impressionisti patentati, a cominciare dal massimo Roberto Longhi, colpevole di numerosi reati in questa direzione, comincia col muovere come capo di imputazione ai danni di Fattori e Lega e Cabianca l’aver indugiato troppo nel quadro storico. Ma, osservavo subito io, forse che lo stesso non si può dire anche di Degas, con il suo famoso dipinto delle donne spartane intente a esercizi ginnici? Del resto si sa bene che il grande Edgar era un convinto “italinisant”, frequentatore dei nostri musei. E anche il collega Manet, se non è mai venuto dalle nostre parti, però al Louvre si è assorbito buone dosi di Velàzquez e Goya. E dunque, in un esame completo del fenomeno macchiaiolo come questo che si tiene a Torino ci stanno bene i riferimenti retrospettivi ai Puristi come Mussini e Pollastrini, che certo non avrebbero sollevato censure da parte del formidabile duo Degas-Manet. Solo il Longhi poté infierire su quello che gli appariva come un insopportabile ritardo della pittura italiana rispetto ai cugini d’oltralpe, commettendo l’errore di non guardare le date di nascita, che infatti ci inducono a una conseguenza generale: i nati tra la fine dei ’20 e i primi dei ’30 dell’Ottocento non avevano affatto compiuto un divorzio dal quadro storico, quindi è giusto ammettere nell’albo d’oro le tele rivolte in questa direzione da Fattori, Lega, Cabianca. Caso mai, un discrimine si compie solo a partire dalla metà dei ’30, dopodiché diventa quasi obbligatorio lasciar cadere il soggetto storico e calarsi per intero nel vedutismo, come fa proprio Telemaco Signorini, eccellente campione di un nostro impressionismo quasi allo stato puro, da paragonare con i migliori esiti, se non proprio di Monet, almeno di Sisley. E dietro di lui viene la perfetta squadra degli Abbati e Sernesi, sulla cui linea del resto si attestano rapidamente anche i già ricordati Fattori e Lega e Cabianca, con l’aggiunta di Banti. Oltretutto, la “macchia” possiede perfino un impulso anticipatorio, ovvero si stabilisce il cortocircuito “novantico”, per cui se per un verso si guarda alle geniali tarsie dei quattrocentisti, per un altro ci si lancia in avanti ad anticipare certe soluzioni di “à plat” degne di quel transfuga dall’ortodossa impressionista che fu Gauguin, una strada su cui il troppo frantumato e rabbrividente Monet non poteva certo procedere. Su questo exploit tornese potrebbe piovere il commento di “troppa grazia, S. Antonio”, ovvero in un pur legittimo e apprezzabile intento di allargare le maglie si è finito per mettere troppa carne al fuoco, per esempio, che ci fa Fontanesi, in questa rassegna? O meglio, intendiamoci, se insistiamo a perorare la causa di un impressionismo che varca le frontiere, certo al vedutista reggiano-piemontese si addice del tutto una collocazione in questa schiera, ma il suo fare a “salice piangente”, è quanto ci possa essere di più lontano dalla strategia della “macchia”. Se è lecito, e addirittura doveroso, predicare a favore della causa di un impressionismo unificato, però bisogna anche ammettere che ci furono tante vie per giungere a quell’esito, e quelle seguite da Fontanesi furono sue proprie, come del resto anche quelle della Scuola di Rivara, con in testa Carlo Pittara e il suo solido realismo, per cui anche questa sezione è forse alquanto fuori luogo. Ma in questa materia vale il motto “melius abundare quam deficere”, come succede ampiamente nella mostra torinese che si sta per aprire.
I macchiaioli. Arte italiana verso la modernità, a cura di C. Acidini e V. Bertone, Torino, Galleria d’Arte Moderna e contemporanea, fino al 24 marzo. Cat. 24 ore cultura.

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