Ricevo da Anna D’Elia un saggio a dire il vero dal titolo alquanto enigmatico, “Vederscorrere”. Più appropriato il sottotitolo, “L’arte che salva”. E’ un’opera composita, con una seconda parte di buon valore narrativo, tanto che la potrei trasferire nella rubrica che ogni domenica dedico a questa voce. Vi trovo una davvero drammatica testimonianza di una donna anziana che si rifiuta di essere ricoverata in un centro apposito, come ne dice eloquentemente l’incipit, “non voglio andare, dice Amna alla figlia”. E’ una specie di controcanto rispetto a tutta la retorica, forse in buona misura anche giusta, con cui abbiamo salutato il personale sanitario che si è impegnato nella cura del covid, medici e infermieri, come se fossero altrettanti angeli salvatori. Il crudo referto di queste pagine ce ne mostra l’altra faccia: proibizioni, angherie su persone indifese, maltrattamenti, da cui il rifiuto di Anna. Questo crudo referto è del tutto in linea con gli esiti narrativi, da me molto lodati, fornitici da concorrenti di seconda fila all’ultimo Strega, quali Daniele Mencarelli e Jonathan Bazzi, che hanno sviluppato, in modo più organico e insistito rispetto alla nostra D’Elia, questi aspetti della repressione semi-carceraria cui sono sottoposti, pur sotto forme in apparenza civili e irreprensibili, i colpevoli di turbe psichiche o di assoggettamento alla droga. La nostra autrice annuncia di avere pronto un romanzo, conto di averlo presto tra le mani e di trovarvi conferma di queste valide doti. C’è poi, o prima, una parte in cui la D’Elia si mostra nella sua veste più solita di critico militante, ma succede inevitabilmente che nei ritratti svolti un tale punto di vista risulti proprio condizionato dallo spirito di rivolta che ha così bene alimentato alle spalle, ovvero i vari artisti, prima di essere analizzati nei tratti del loro stile e magari ricondotti a fenomeni generali, vengono interpretati come esasperate voci di protesta. In definitiva, è una serie di testimonianze sul cui conto io stesso ho avuto più volte l’occasione di esprimermi, ma col passo analitico, freddo e circospetto che si addice al fenomenologo degli stili, quale io mi proclamo di voler essere e di attenermi nelle mie indagini. Invece la D’Elia è interessata a farne una coorte di protestatari, che si levano dalle varie sponde del tempo, dello spazio, dell’orizzonte delle tendenze. Presa per questo verso, la galleria è giustificata, intensa, veemente. Ci sono i pesi massimi della storia, da Van Gogh a Frida Kalho a Francis Bacon, e tante presenze dei nostri giorni che hanno punteggiato lo “scorrere” della scena dell’arte dei nostri giorni, ma certo la D’Elia non si comporta da testimone passiva proprio di questo scorrere, in un certo senso non va certo a “vedere”, ma al contrario si sente chiamata ad aderire, a entrare in stretta sintonia: si tratti di Adrian Paci, con quella sua fila di poveri immigrati arrampicati sulla scaletta di un aereo che non decollerà mai portandoli in salvo; di Shirin Neshat con la protesta delle donne, così conculcate nel suo Paese d’origine, l’Iran. E c’è pure la rete di lacci che Maria Lai ha intrecciato per un’intera esistenza, sia per indicare un senso di disagio, come se fosse lei stessa nei panni di quella povera Anna che si vuole costringere alla residenza per anziani, o invece ci volesse invitare a stringere nodi di solidarietà, di armonia con l’ambiente. Ci sono pure omaggi a Pino Pascali, e a Christian Boltanski, quest’ultimo colto in un felice momento particolare, in cui per una volta non accumula le spoglie dei morti, ma le traduce in esili e tremule campanelle suonanti all’aria. Infine, il ricordo di un’artista giovane scomparsa con grande rimpianto generale, Chiara Fumai. Insomma, ne viene senza dubbio un felice “veder scorrere”, ma pure qualcosa di più, un partecipare, un solidarizzare.
Anna D’Elia, Vederscorrere, Meltemi, pp. 189, euro 20.