Arte

Asdrubali, un bel balletto spaziale

Temo di non aver mai parlato di Gianni Asdrubali, anche se questo artista non era sfuggito all’enorme impresa di catalogazione che assieme a molti colleghi avevo condotto nel 1986, “Anniottanta”, perfetta registrazione di tutti i movimenti e fermenti che avevano agitato, in tutto il mondo occidentale, quel momento storico. In quella presa d’atto Asdrubali compariva, credo, come membro del Magico primario, la tendenza con cui Flavio Caroli partecipava alla manifestazione. O magari ci poteva anche stare nel nome di un’ “Astrazione povera”, a firma Filiberto Menna. Mi convince ora una sua mostra al Palazzo Collicola di Spoleto, presentato da due critici di spicco, uno dei quali è Bruno Corà, non più Granduca di Toscana, come con benevola ironia lo avevo soprannominato quando dominava sui musei di quella regione, ma pur sempre autorevolmente insediato su molti scranni. E accanto a lui figura Marco Tonelli, che ho conosciuto e apprezzato quando è stato assessore della cultura nel Comune di Mantova, utilizzando il maestoso Palazzo Te col coraggio di porvi molte mostre di artisti di oggi, tra cui il da me amatissimo Carlo Bonfà, membro del consorzio dei Nuovi-nuovi, a cui mi lega un patto di eterna fedeltà. Ora Tonelli fa il battitore libero, in modi sempre apprezzabili e ben informati. Ma soprattutto è l’artista stesso che si presenta in un filmato in cui illustra molto bene gli aspetti del suo lavoro. I quali potrebbero anche denunciare una certa monotonia, dato che in sostanza si tratta di intrecciare delle sorte di pergolati, tralicci, intrichi che l’artista elabora senza sosta, ma con assoluta libertà di taglio. Per lo più si attiene alla parete, ma su di essa si muove con estrema libertà. Talvolta i suoi pergolati si accostano, fanno siepe o muro, ma talaltra si suddividono, si ramificano, Asdrubali si muove nei loro confronti come un sarto che stende sul bancone le pezze di stoffa da cui ritaglia ampi stralci, di tutti i formati, quadrangolari ma anche sghembi, obliqui, sottratti insomma alla tirannia dell’angolo retto, del ”quadro”. E li sposta, quei ritagli, come meglio gli aggrada, accostandoli tra loro o invece separandoli, in una vicenda animata e ricca senza fine di varianti. Si aggiunga a tutto ciò anche il fascino dell’accompagnamento cromatico, che il più delle volte consiste in un contrasto elementare tra il bianco e il nero, come se quelle sue siepi fossero colte da un algore invernale che le dissecca, ne fa emergere a nudo gli snodi. Altre volte ricorre a dei colori, che però sono tutti essenziali, dei blu, degli ocra, che si guardano bene dallo stemperare la nudità schematica dei ghirigori, anzi, vengono a rinforzarla. E poi un’altra variante è quella dimensionale, talvolta questi ritagli si allargano, investono vasti tratti di parete. Altre volte rimpiccioliscono, diventano come dei nidi di insetti brulicanti che vanno a incistarsi sulla superficie rendendola animata, vibrante. Insomma, uno spettacolo sempre vario e piacevole. fuori da limiti e confini prudenziali, ben animato dal muoversi dell’artista, instancabile nel mutare la collocazione di questi suoi lacerti.

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