Letteratura

Covacich: una valida “autonarrazione”

Suppongo che Mauro Covacich sia rimasto molto amareggiato per non aver riportato, nel 2015, il Premio Strega con la sua eccellente raccolta di racconti “La sposa”, credo solo per una questione di gerarchia di generi letterari, che aveva portato a preferirgli un romanzone, non privo di qualità, ma lutulento, farraginoso steso da Nicola Lagioia. Come tornare alla carica? Forse non è più tempo di puntare sul romanzo compatto e più o meno unitario nella trama, del resto Covacich si era già esibito molto bene anche in questa direzione con “A perdifiato”, del 2003, riportando solo il Premio d’affezione datogli dalla sparuta pattuglia, sul punto di essere licenziata, degli amici gestori di RicercaRE, a Reggio Emilia. Meglio allora ripiegare su un genere oggi del tutto dominante, detto dell’”autonarrazione”, tanto per evitare un termine più tradizionale e consunto come quello di autobiografia. Vi si sono misurati in questi anni tanti altri narratori, penso a Maggiani, Pennacchi, Scurati, Albinati, Doninelli, e perfino Veltroni. Ma in merito il nostro autore può vantare una precedenza, in fondo è stato tra gli iniziatori nell’ imboccare questa pista, con “A nome tuo”, e ora ritorna alla carica con “La città interiore”, che sarebbe poi, almeno a livello geografico, la città di Trieste, col che si apre anche una sfida nei confronti di chi ritiene di avere su quel luogo una specie di diritto di prelazione, Claudio Magris. Ma su questo terreno Covacich è superdotato, proprio per il taglio crudo, inesorabile, come affidato al bisturi, con cui definisce i nuclei d’azione dei suoi racconti. E in definitiva anche questa narrazione lunga altro non è che una ingegnosa cucitura di tanti momenti d’eccezione, isolati, racchiusi in una loro magica perfezione. Si aggiunga che questa medesima capacità di ritagliare, di concentrare in misura drammatica, accompagna il Nostro anche nella sua attività giornalistica. Da qui i vantaggi sulla schiera dei suoi competitori, che spesso non evitano di cadere in sdolcinature memorialiste, o peggio ancora, diffidando della forza stessa dei loro ricordi, vanno a rubare dalle cronache episodi di brutalità, delitti efferati, Albinati insegna. Mentre i flash scattati da Covacich si qualificano tutti per genuinità, per forza di cose viste, o sentite narrare in famiglia ma con tono perentorio, anche se beninteso, assiso in una cabina di montaggio, egli si arroga il diritto di incastrare questi frammenti di vita passeggiando in su e in giù sul filo degli anni, della storia, delle occasioni. Vario e vivace è l’alternarsi di incursioni nella propria privacy, col filo lungo di vicende che collegano i vari rami e generazioni della famiglia, e invece gli incontri “pubblici”, con personaggi famosi come Italo Svevo, Joyce, Quarantotti Gambini, Coetzee, ma sempre dimostrando la forte capacità di incidere, di andare oltre la scorza degli eventi, di penetrare sotto la cappa delle notizie ufficiali, insomma, di andare a mordere su una carne viva. Per esempio, tra i vari “topoi” che i frequentatori di storie triestine, Magris insegna, non possono evitare c’è una incursione, o immersione negli orrori della Risiera di San Sabba, dove venivano deportati e quindi giustiziati sia gli ebrei sia i partigiani, ma il modo secondo cui il nostro autore ricostruisce le vicende di Pino Robusti, con una doccia scozzese tra la speranza di scampare e invece un perentorio avvicinarsi della fine, avvolto negli orridi odori di carne umana bruciata, come in un gigantesco barbecue, riporta la palma del primato, proprio in forza di una lucidità insuperabile. Senza dubbio il ritmo di “toccato e fuga” con cui queste storie vengono inanellate contribuisce a dar loro forza, perentorietà, anche se, ammettiamolo, non è facile per il lettore seguire quelle scorribande, forse sarebbe il caso di munirsi di un foglietto per annotare i vari rimbalzi, salti in avanti e indietro nel tempo. Forse il narratore per primo ha dovuto darsi uno schema, una topologia dei vari incastri, così come si dice che il grande Dickens facesse per la folla smisurata dei personaggi inseriti suoi romanzi, costruendo un teatrino con le loro sagome e gettandole vie quando il loro destino fosse giunto a conclusione, per non rischiare di farle rivivere. Ma a dire il vero il ritmo diacronico cui Covacich si affida lo garantisce su questo fronte, i suoi tanti personaggi non escono mai di scena, possono essere richiamati a una svolta della narrazione.
Mauro Covacich, La città interiore. La nave di Teseo, pp. 233, euro 17.

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