Si usa sostenere che ai nostri giorni non ci sono più differenze tra destra e sinistra, ma invece una grossa e palese se ne prsenta, se parliamo delle crisi aziendali che si sono accese negli ultimi tempi. Per una destra, anche moderata, liberale, è un dogma che non si possono obbligare le aziende private a mantenere il personale se il mercato non consente di produrre ai ritmi soliti, e dunque in questo caso non si possono evitare i licenziamenti, magari col sottinteso che conservare in uno stato sciale un po’ di disoccupazione serve a far tenere basse le richieste dei lavoratori. Per la sinistra invece bisogna farsi carico dei disoccupati, sia con varie forme assistenziali, come le casse integrazione, magari sconsigliando solo quella forma di beneficienza a fondo perduto che è il reddito di cittadinanza, accettato dal Pd solo per poter andare al matrimonio con i Pentastellati, che in quel provvedimento hanno visto una propria ragione sostanziale di esistenza. Ma a monte di tutto questo un pensiero di sinistra non può rinunciare al principio delle nazionalizzazioni, cioè del fatto che deve essere l’intera comunità a farsi carico di certi sevizi fondamentali, costi quel che costi. In questo senso ragiona bene il ministro Stefano Patanuelli che di recente ha risollevato il fantasma dell’IRI, dell’Istituto Ricostruzione Industriale, a cui si deve il salvataggio del nostro Paese sia nella crisi Anni Venti, sia in quella del dopoguerra. Averlo smantellato è stato forse un torto, uno sbaglio, la cui colpa grava in larga parte su Romano Prodi, che trovatosi alla testa di quell’istituto, lo aveva considerato insostenibile, soprattutto in visita delle nuove regole europee, e ne aveva avviato lo smantellamento a favore del privato. Ma oggi i privati fuggono a gambe levate da quelle responsabilità, o ne fanno una conduzione molto dubbia, vedi i casi di Autostrade e dell’ex-Ilva, mentre lo Stato non si è comportato male in occasione della costruzione di una poderosa rete autostradale, negli anni Sessanta e oltre, e più di recente nel creare la rete ferroviaria dell’Alta Velocità. In un caso e nell’altro non sembra che si siano avute ruberie o inserimenti mafiosi di particolare entità, e dunque non sempre l’intervento pubblico equivale a un ingrossamento dei costi e a un intervento di mediazioni nocive. Pare che una norma UE proibisca proprio gli interventi statali, ma questo è per garantire una apertura a gare di appalto cui possano accedere anche i privati. Se questi non compaiono, o se le loro anteriori gestioni risultano inefficienti, la parola non può che ritornare all’ente pubblico, tenuto ad assicurare lo svolgimento di servizi essenziali per la comunità, con relativo assorbimento della mano d’opera. Naturalmente, finché si può, è opportuno cercare forme miste, dove accanto a risorse pubbliche entrino anche i privati. Pare che qualche speranza in questo senso si sia profilata per la questione ex-Ilva, in cui il magnate franco-indiano è tornato al tavolo delle trattative. Mentre una pista del genere, che pure sembrava promettente, pare si sia chiusa per Alitalia, col ritiro di Atlantia, che ci starebbe solo se le venisse confermata la gestione delle autostrade, ma compromessa dai recenti crolli di ponti. Una cosa comunque è sicura, in un modo o nell’altro l’ente pubblico deve fare fronte a queste esigenze, trovando le giuste vie di intervento.