Letteratura

Hawking e le sue risposte

L’altro giorno per sopportare la noia di un viaggio in treno ho acquistato il saggio di Stephen Hawking, “Le mie risposte alle grandi domande”. Dico subito che la mia competenza in materia fisico-matematica è ben scarsa, quindi non saprei rispondere al quesito manzoniano se quella del ben noto studioso sia stata “vera gloria”, di sicuro gli si deve riconoscere una non comune forza d’animo nell’aver sopportato la grave malattia da cui era afflitto, riuscendo a svolgere malgrado tutto una vita coniugale e professionale di ottimo livello. Quanto alle risposte che egli ci fornisce nel libro in questione, una mi convince senz’altro, relativa a un interrogativo molto ingenuo di chi si chiede che cosa esisteva prima della nascita dell’universo. Se non sbaglio la sua risposta è che il tempo stesso è nato con l’atto istitutivo della nostra realtà, ovvero con lo scatenarsi del “big bang”, cui ormai nessuno nega legittimità e verosimiglianza. Non mi pare che l’autore risponda con uguale chiarezza a un interrogativo opposto, che cosa c’è al di là del tempo e dello spazio? Dove, come si ferma l’infinito espandersi dell’universo, tanto più che la stessa teoria dell’esplosione iniziale ci dice pure che i frammenti di quella bomba primordiale si stanno allontanando tra loro a raggiera? Dobbiamo quindi misurarci con la nozione di uno spazio-tempo che si prolungano all’infinito? Ma qui ci viene in aiuto la genialità di Einstein, ribadita ad ogni passo dallo stesso Hawking, che come sappiamo ha pure introdotto l’esistenza delle onde gravitazionali, per effetto delle quali lo spazio-tempo “curva”, rientra in se stesso, secondo il paradosso per cui una astronave capace di procedere alla velocità della luce non si perderebbe negli abissi dell’universo, ma prima o poi ritornerebbe sui propri passi. Insomma, non è pensabile un andare oltre quanto esiste nel nostro universo, allo stesso modo che non ha senso chiedersi che cosa ci fosse “prima”. Anche se devo ammettere che una simile concezione, favorevole a un inizio e a una fine, suona a vantaggio di una tesi creazionista, salta fuori cioè la possibilità di introdurre un Dio creatore dal nulla, una cosa che per un ateo come me non risulta molto allettante.
Naturalmente Hawking può amministrare tranquillamente un’estensione temporale di milioni o miliardi di anni che spiegherebbero l’evoluzione della vita sul nostro pianeta, sia vegetale che animale, senza escludere la possibilità che su qualche altra particella del cosmo possano esistere altre forme di vita, anche se con modalità diverse da quelle qui realizzate, e dunque anche con l’invito implicito, da far valere per prossimi tentativi di esplorazione su altri pianeti, di impedire l’ingresso tra di noi di simili eventuali forme di esistenze aliene, che potrebbero risultare del tutto nocive alle nostre. Ma un problema che Hawking non affronta per nulla è quello della nostra stessa comparsa sul pianeta. E’ vero che in merito c’è l’ipotesi darwiniana di lunghi tempi di evoluzione, prima di vedere raggrumarsi sulla terra qualcosa di simile alla intelligenza dell’”homo sapiens”. Ma possibile che, se scrutiamo il pur limitato tempo suscettibile di indagine, pochi millenni, e non certo milioni di anni, non riusciamo a scorgere nessuna traccia di un avvicinamento della condizione animale alla nostra umana? Dobbiamo avere fiducia nell’effetto lento dello sgocciolare dei millenni, o invece dobbiamo invocare, ancora una volta se da atei non crediamo in una creazione divina, al compiersi di qualche catastrofe? Francamento quella progressione illimitata predicata dal darwinismo mi sembra puzzare di positivismo ottocentesco, qualcosa che fa a pugni con le nostre attuali convinzioni “quantiche”, in cui crede il nostro stesso Hawking. Inoltre diciamo pure che attorno a questa comparsa dell’”homo sapiens” si è verificato un miracolo genetico, pensiamo a quale rischio si sarebbe incorso se sulla terra fossero sopravvissute forme antiquate di intelligenza, bloccate a uno stadio evolutivo intermedio, tra lo stato avanzato di qualche primate e invece un “homo erectus” già portatore di una scintilla mentale. Quale disastro sociale, etico, antropologico se oggi fossimo circondati da esistenze rimaste ferme a qualche grado di evoluzione inferiore, quasi come degli automi o dei robot, ma dotati di vita, di organi sensoriali, eppure provvisti di doti mentali ferme al livello di esseri inferiori. Quale invito a rilanciare, a sfruttare forme di schiavismo. Invece, ecco il miracolo genetico, le diversità tra le diverse famiglie umane si fermano a questioni di superficie, di pelle, di taglio degli occhi, ma non risulta tra loro nessuna inferiorità costitutiva e irrimediabile, se si eccettuano le comprensibili limitazioni provocate da fattori climatici e ambientali. Sappiamo bene che i neri ci battono per predisposizioni atletiche, o per doti nella recitazione, nelle performances musicali, i gialli sono più abili di noi nello sfruttamento dei procedimenti informatici, e così via. Anche per questo verso il darwinismo pare offrire spiegazioni insufficienti, non si constatano tappe intermedie verso la corsa a realizzare quel capolavoro unico sulla Terra che è la comparsa dell’”homo sapiens” o quanto meno, se quelle tappe ci sono state, per fortuna ora sono scomparse senza lasciare qualche sopravvivenza.

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