La mostra che il Palazzo Reale di Milano dedica a Ingres attesta, purtroppo, l’attuale moda di allestire rassegne dedicate ai grandi nomi dell’arte, ma in fretta e furia, non mirando certo a una campionatura perfetta delle loro opere, bensì al mettere in piedi alla meglio un’antologia appena passabile, nutrita di tanti comprimari, e soprattutto di opere grafiche, più facili da procurarsi e da trasportare. Purtroppo sono mostre non concepite da pensosi comitati critici, bensì da editori che le finanziano soprattutto al fine di venderne i cataloghi, massicci, imponenti, costosi. In questa gara editoriale è entrata in lizza di recente la Marsilio, venendo quindi a far cessare il quasi-monopolio che in passato era nelle mani di Silvana Editoriale e di Skira, accompagnate dal Sole 24ore. La prima ora si è fatta da parte, mentre le altre due sono sfidate appunto da Marsilio, che almeno in questa occasione non commette, come già nel caso del Verrocchio, l’improprietà di porre in copertina un’opera non presente nell’esposizione. Qui campeggia l’immagine dell’Imperatore, che Ingres (1780-1867) esegue poco più che ventenne, subentrando a colui che in quel momento era ancora il cantore ufficiale delle glorie del Bonaparte, Jacques-Louis David, Quello fu anche il modo attraverso cui il giovane pupillo scavalcò la corte degli allievi quasi coetanei del fondatore del Neoclassicismo, i vari Gros, Gérard, Fabre, Girodet, che in effetti qui sono presenti con qualche dipinto a testa. Ma certo su tutti domina quella sorta di bambolotto maestoso, che sembra voler essere “più vero del vero”, come per entrare in un Musée Grevin. Un bambolotto, un manichino cui l’artista si compiace di far indossare vesti, impugnare simboli del potere, ornarsi di monili e decorazioni a iosa, ricorrendo a un “fermo immagine” da cui lo stesso David avrebbe preferito distogliersi per conferire più movimento al suo eroe. Ma questo fu il compito, il destino dell’allievo venuto due generazioni dopo il maestro, irrigidire, rendere le forme ancor più ceree, magari fino a farle scivolare verso esiti spettrali. Infatti il pupillo non aveva tardato a comprendere che ormai era passata la fase eroica del Neoclassicismo, che bisognava lanciare occhiate di interesse verso temi ed episodi tipici dell’universo “romanzo”, medievale, da cui proveniva anche una accezione corretta dell’etichetta fatale che stava per impadronirsi del campo, ovvero il Romanticismo. A Ingres riuscì un capolavoro di abilità, mantenere la fermezza di forme, la lucentezza smaltata dei colori, come gli aveva insegnato David, ma spingendo però quei mezzi a illustrare temi ed eroi provenienti da ambiti più fantastici, allucinati, o appunto romantici. Attesta questo suo abile compromesso il dipinto forse più importante qui in mostra, “Il sogno di Ossian”, dove Ingres riesce nel compromesso, di far apparire i fantasmi dell’onirismo romantico, quasi mettendosi sulla scia di un Füssli o di un Blake, ma nello stesso tempo provvedendo a renderli candidi, come sottoposti a un procedimento di ibernazione. Aprire sì ai fantasmi, ai sussulti dell’irrazionale, ma “con juicio”, con mosse felpate e circospette. Che comunque provvedevano ad allargare l’area spettante ai rigori del Neoclassicismo, fino a sfidare gli analoghi passi nella leggenda di cui erano capaci, in Germania, i cosiddetti Nazareni, o in Italia la squadra che poi si sarebbe detta dei Puristi. Se si vuole, si possono coprire tutti questi vagiti di innovazione evocando lo spettro del “ritorno a prima di Raffaello”, del Preraffaellitismo, che solo un mezzo secolo dopo sarebbe giunto, in Inghilterra, a consacrare questa precisa volontà di fermare il corso della storia, di fare macchine indietro, scongiurando i demoni del pittoricismo barocco e barocchetto, quegli stessi demoni cui invece artisti francesi di poco posteriori al nostro, Géricault e Delacroix, avrebbero dato ampio sfogo. Si sa bene che per tutta la prima metà dell’Ottocento in una Francia che, nonostante le disfatte napoleoniche, manteneva una leadership soprattutto in arte, i due fronti condussero una strenua battaglia, da un lato Ingres, con la sua bacchetta magica che interveniva a bloccare i fervori di vita, quasi a tradurli, si direbbe oggi, in prodotti artificiali, in poliuretani, in resine sintetiche, e invece all’opposto gli scatenati Géricault e soprattutto Delacroix, che liberavano i venti dell’impulso pittorico dall’otre di un Dio Eolo lasciandoli irrompere, fino a condurre verso l’esito estremo dell’Impressionismo. Mentre Ingres, semmai, si faceva erede dei rimbrotti che un suo precursore quale Blake aveva lanciato verso Rubens e Rembrandt, accusandoli senza mezze parole di dipingere “con la merda”. Lui personalmente, arroccato nella fortezza romana di Villa Medici, agiva da freno, tentando di mantenere intatta la lezione davidiana.
Di questa sua abile politica di uno “stop and go”, di dare il via libera a certi fermenti, ma per arrestarli subito alle prime mosse, ci sono scarsi documenti, nella mostra milanese. Pochi esempi che comunque introducono alle varie serie in cui questa ambiguità ingresiana seppe tradursi, come quando andò a frequentare il tema esotico, orientaleggiante, delle odalische sorprese, con la mente e non certo con gli occhi del testimone, in qualche harem del Medio Oriente, ma subito bloccate in una perfezione algida di forme, di nudi fin troppo levigati, impermeabili alla carezza degli agenti atmosferici. Laddove, quando il rivale Delacroix faceva irruzione su scenari della medesima specie, dava fuoco alle polveri del pittoricismo più ardito. E c’è pure, in mostra, qualche traccia delle evasioni che Ingres, sempre in cauta apertura sul medioevo, intese dedicare alla tematica “trobadour”, con scenette in cui Paolo e Francesca si presentano trattati come pupi, come sagome ritagliate da qualche predella quattrocentesca.
Ho già detto del ricorso a sontuosi accompagnamenti di comprimari cui mostre di questo tipo si danno per arrotondare il peculio, qui però è senza dubbio opportuno lo sguardo rivolto a un predecessore di Ingres, e risoluto concorrente di David, quale fu il nostro Andrea Appiani. Spiccano su tutto le incisioni che per fortuna furono ricavate dall’enorme fregio che l’artista lombardo aveva eseguito nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale proprio per onorare l’ingresso di Napoleone in Milano nel 1800. Quella lunga “striscia”, dove le imprese miliari vengono trattate come un fregio degno dell’arte romana, ma meglio giù usare il derivato, e parlare di una voluta barbarie, deformazione, schiacciamento di sapore romanico. Sono la migliore dimostrazione di quella volontà di andare oltre il clima surgelato del Neoclassicsimo che animò pure le molte imprese ingresiane rivolte in questo senso.
Jean Auguste Dominique Ingres e la vita artistica al tempo di Napoleone, a cura di S. Guégan e F. Viguier-Dutheil. Milano, Palazzo Reale, fino al 23 giugno. Cat. Marsilio.