Arte

Icaro. una scherma spaziale

La Galleria d’Arte Moderna di Torino dedica una giusta e opportuna retrospettiva a Paolo Icaro (1934) che serve a ricordarci una volta di più come l’Arte povera di Germano Celant non possa pretendere di portar via l’intero piatto di quanto si affacciava in Italia, e nel mondo, all’approssimarsi del fatidico 1968. Lo stesso discorso vale, e del resto io l’ho già fatto, per il suo conterraneo, marchigiano come lui, Eliseo Mattiacci, purtroppo scomparso di recente. Nessun gruppo, in ogni tempo, riesce a monopolizzare per intero un “ismo”, è una regola generale, e se l’Arte povera invece è riuscita a compiere quest’impresa, lo di deve alle capacità manageriali di Celant, più che di critico, fra l’altro privo di qualsiasi sensibilità nel parlare delle opere d’arte. Icaro, al suo primo apparire, nel 1964, anno da cui inizia a documentarlo la presente mostra, arieggiava, se si vuole, il Minimalismo statunitense, ma introducendo già validi indici di devianza, infatti i suoi elementi metallici filamentosi rifiutavano di descrivere dei formati rigorosamente squadrati, ma appunto deviavano, seguivano percorsi irregolari, cercavano a bella posta che i vari bracci non si incontrassero tra loro. In questo senso non c’è opera più tipica del “Cuborto” del ’68, dove il mancato incontro a perpendicolo dei segmenti metallici, cioè il fallimento del proposito di tracciare un cubo, appare sostituito da una spinta a farsi “torto”, o diciamo pure simile a un aborto, proprio per far fallire uno “spirito di geometria” troppo affidato al tiralinee. Inoltre Icaro sa bene che a rimedio del carattere aggressivo, tagliente di spade e fioretti, se ne ricoprono le punte con tondini protettivi. Ebbene, lui fa qualcosa di simile, infatti in genere su quelle pertiche pone come dei cappellacci, ovvero delle tavolette in gesso, appunto per toglierne il carattere contundente. E dunque accanto a una vocazione verticalizzante, ce n’è in lui anche una di segno contrario, a favore dell’orizzontale, che approda addirittura a soluzioni pavimentali, andando a rivestire i pavimenti con un acciottolato, magari con ricorso quasi a tessere di un mosaico. Del resto, quell’approdo raso terra gli serve non certo per raggiungere un senso di equilibrio inerte. Anche se una di queste opere è intitolata”Linea di equilibrio”, in realtà la vediamo sbandare, oscillare, assumere un andamento curvilineo. Un altro tema che lo assilla è quello di rendere il vuoto, cosa che gli riesce possibile solo dotando uno spazio cavo di una sorta di pelliccia, di anima esterna capace di renderlo visibile per contrasto, e in questo caso la “camicia”, la scorza esterna può essere trattata con un gonfio spirito barocco, pieno di bitorzoli e grumi, come se si trattasse di una pelle invasa da qualche piaga. Però, attenzione, se in Icaro c’è una spinta verso i valori della mobilità, dell’eccentricità, ovvero appunto verso una tendenza barocca, questa viene frenata, forse meglio dire censurata, ricorrendo a una rigorosa imbiancatura, come dare la calce proprio per curare una qualche infezione animale o vegetale. Si potrebbe anche dire che il nostro artista è un “lunatico”, ma nel senso letterale della parola, in quanto tenta proprio di afferrare uno spicchio di luna, candida, lattea, imprigionandola in un secchio, come se l’avesse recuperata da un pozzo. C’è in lui una infinita pazienza quasi di un giocatore di “shangai” che colloca con delicatezza i bastoncini, o erige castelli di carta, ma poi viene preso da un momento di furore e allora getta tutto all’aria, o meglio, imbroglia quei suoi lucidi tracciati, li arruffa, ne ricava una giungla, ma sempre nel segno di una austera acromia. A meno che, invece, ma molto più di rado, non consenta che da quei suoi involucri essenziali trasudi, come un umore maligno espulso, un delicato strato di colore, ben attento però a non disturbare un’armonia che resta pur sempre abbarbicata a una austera combinazione tra il bianco e il nero, tra il pieno, ma subito minacciato da un vuoto incalzante. Perfino i corpi, se pretendono di affacciarsi in questo mondo parco ed economico, possono farlo solo come esili, filamentosi tracciati, devono cioè lasciare fuori di scena gli ingombri della carne, mettere a nudo la sottile, rarefatta gabbia del sistema nervoso interno.
Paolo Icaro, Antologia 1964-2019, a cura di Elena Volpato con scritti di Bernard Blistène e altri, Torino, GAM, catalogo Corraini.

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