Arte

La Fondazione Menna.Binga

Dal solito Artribune apprendo che è nata la Fondazione Filiberto Menna-Tommaso Binga, buona idea, forse anch’io ne dovrei fare una con mia moglie Sandra Borgogeìlli, I due erano molto diversi, non credo solo per differenziarsi, come pure era successo tra Mafai e Raphael, per non farsi concorrenza nella pittura. Binga, che era i nomignolo con cui la moglie di Filiberto era chiamata, o si chiamava lei stessa da piccola, sembrava diversa dal marito per scelte originarie, senza secondi fini. Con Filiberto ho avuto un dialogo amichevole e pacifico per tutta la sua carriera. La sua era cominciata tardi, dopo i trent’anni, All’inizio avevamo militato, come tutti i giovani degli anni Cinquanta e primi Sessanta, nell’Informale, poi eravamo passati alla Pop Art, ma già qui si poteva notare la differenza tra di noi, che del resto si allargava in una specie di disfida tra Roma e il Nord. I Romani stavano adottando quella linea analitica di cui Menna si sarebbe poi fatto convinto sostenitore, cioè fredda, rigorosa, “pura”, come dicevo io allora, che invece propendevo per una linea “impura”, o, per dirla in termini filosofici, sintetica, come già era avvenuto in una mostra torinese del ’77, voluta da Paolo Fossati, fatta alla GAM di Torino, che aveva ancora i muri inclinati provocatoria idea del costruttore, non ricordo più chi fosse stato, col pretesto che così si prendeva meglio la luce filtrante dai lucernai del soffitto, Ma di fatto bisognava mettere dei pannelli per raddrizzare le pareti. E allora fu chiara la distinzione, con Menna paladino di una linea analitica, geometrizzante, io invece di una linea sintetica, ma entrambi in definitiva alleati contro una linea di realismo sostenuta da Del Guercio. Già un decennio prima c’era stato un segnale chiaro delle mie scelte “equivoche” e ambigue, così pensavano i colleghi romani, in quanto avevo accolto Domenico Gnoli coi suoi esiti para-surrealisti, convincendo l’amico Rumma, salernitano, quindi tenuto a parteggiare per Menna, ad acquistarne un dipinto, severamente criticato da Filiberto, che lo convinse a disfarsi di quell’opera, giudicata trasgressiva della linea rigorista. In vista della Biennale di Venezia del ‘90 eravamo stati designati entrambi a curare la partecipazione italiana, e sarebbe stato il confronto decisivo tra noi due, ma la malattia si era impadronita di lui, mettendolo fuori combattimento, tanto che si corse ai ripari trasferendomi nel comitato di selezione per “Aperto”, il che fra l’altro mi permise di puntare decisamente su Jeff Koons, alle sue prime apparizioni.

Tommaso Binga invece aveva optato per la performance, che organizzava in un luogo speciale, detto Il Lavatoio contumaciale. Ricordo soprattutto una sua eccellente invenzione, che era del confessionale automatico, dove un normale confessionale chiesastico veniva trasformato in una macchinetta automatica, che con voce metallica intimava al cliente “da quanto tempo non ti sei confessato ?”, e così via, come per prendere un caffè. Una prestazione superba, tanto che mi era venuta l’idea di farmi quasi impresario organizzando una prestazione del genere e accostandola ad altre analoghe per portarle in giro in teatri d’Italia che fossero aperti alla sperimentazione, ma poi non riuscii a farne nulla.

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