Arte

Morris: un “Monumentum” eretto per sè e per tutta l’umanità

Ad appena un anno di distanza dalla morte, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, sotto l’abile direzione di Cristiana Collu, celebra come meglio non si potrebbe Robert Morris (nato nel 1931), forse l’esponente principale della grande rivoluzione che si ebbe nel ’68, ma anticipata proprio dal cosiddetto Minimalismo di cui questo artista si può considerare il numero uno. Io allora non esitati, nei miei vari scritti, a riconoscere l’importanza di quel movimento, anche facendo forza su alcune mie quasi innate convinzioni, che mi portavano ad aderire alle teorie di Einstein secondo cui le rette, e il loro incontro in un angolo a 90 gradi, non esistono nell’universo, mentre al contrario le proposte minimaliste si presentavano sotto forma di cubi e prismi, comunque di strutture, dette anche “primarie” proprio per la loro discendenza perfetta da un manuale di geometria euclidea. Ma me la potevo cavare ricorrendo al mio amato Sartre, che ci aveva insegnato a distinguere tra l’”in sé” e il “per sé”, e infatti quelle forme, fin troppo rigide in se stesse, richiedevano che il fruitore gli passeggiasse attorno, che cioè si impegnasse in una azione, in una performance, in cui consisteva il cuore stesso di quella rivoluzione in atto. Del resto, il tratto distintivo, e geniale, di Morris è stato quello di essere pronto a voltare la frittata. Infatti questo mio privato ragionamento ben presto se lo pose lui stesso, e dunque da quel formalismo compiaciuto e perfetto passò ben presto al suo rovesciamento, non più pannelli rigidi, metallici ma morbidi tessuti, feltri pronti a cedere alla forza di gravità. Era un esemplare passaggio dallo “hard” al “soft”, che si può anche considerare come il tratto distintivo della grande svolta di quegli anni, con l’appoggio della tecnologia, pronta anch’essa ad adottare proprio la “softness” come nota distintiva. Tutto questo mi permise addirittura di recuperare il mio amato Informale, ma con la precisazione che ora si trattava di un Informale “freddo”, nell’accezione di McLuhan, cioè tale da non fruirsi solo con gli occhi ma con l’intero accompagnamento di ogni orano sensoriale, e dunque col movimento, con la tattilità. Morris, su quella strada, si spinse fino a traguardi “massimali”, come per esempio il riempire una stanza con un cumulo di “trash”, di spazzatura. Credo che a quella svolta abbandonasse quasi tutti i compagni della prima ora, rimasti a prodursi in sbarre, o magari disponibili a invadere anche il territorio (Land Art), ma sempre con mosse parche e circospette. Del resto, non fu solo quella, l’unica svolta proposta da Morris. In seguito fece di meglio, o di peggio, secondo i punti di vista, imbracciando anche il pennello per dar luogo a una popolazione di immagini violente, brutali, in una ripresa di Espressionismo, e neppure astratto, ma rispondente ai canoni più consacrati. Ora quasi “in articulo mortis” ha voluto dare il meglio di sé, ovvero uscire di scena con una specie di sintesi di tutti i passi precedenti, ritornando addirittura alla figura umana, ma svuotandola di ogni interiorità. Come se un cataclisma, simile alla famigerata eruzione del Vesuvio, avesse soppresso le carni, modellando solo le scorze esterne dei corpi. Infatti l’artista ha fatto indossare a delle persone viventi delle tuniche, delle gabbane, delle tonache monacali, invitandole a gestirle dall’interno come indemoniate, facendole poi uscire e indurendo le pose che ne erano risultate. Come una folla di ossessi, di indemoniati, di streghe avviate al sacrificio estremo, al rogo, e in attesa dello strazio protese a gesticolare, a protendere braccia, dorsi, gambe, in un balletto sinistro, in una performance muta, delirante, che le spinge a fare gruppo, o a uscir fuori dagli spazi chiusi per andare a occupare con pose drammatiche le gradinate esterne di accesso alla Galleria. E’ davvero un “Monumentum”, come suona il titolo della mostra, che Morris erige a se stesso, ma anche a tutto il mondo dell’arte, di cui riassume, come proprio si deve fare sul punto di andarsene, alcune delle tappe più tumultuose, di un barocco magicamente ritrovato. Non posso fare a meno di menzionare che a Modena c’è da tempo un’artista, Cristina Roncati, cui non è mai mancato l’appoggio continuo del miglior critico di quella regione, Francesco Arcangeli, che si è avventurata in soluzioni molto simili. Ma in qualche modo l’ultimo Morris si è fatto carico di tutta l’umanità, l’ha voluta trascinare con sé in un balletto estremo.
Robert Morris. Monumentum 2015-2018. A cura di Saretto Cincinelli. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, fino al 12 gennaio 2020.

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