Attualità

Omaggio a Ettore Scola

C’eravamo tanto amati

Come altre volte, invece che parlare di un narratore mi occupo di un regista cinematografico, in base alla mia convinzione che ci sia una omogeneità strutturale tra i due generi. E in particolare ho l’occasione di parlare di un nostro grande regista, Ettore Scola (1931-2016), con una data di nascita scomoda perché lo poneva a ridosso di una generazione di maestri quali De Sica, Rossellini e, più vicini a lui negli anni e negli  intenti, Antonioni e Fellini, come questi impegnato  a  cogliere una eredità dal neorealismo ma ad anticipare un cinema di più fine interpretazione psicologica, al seguito dei due ultimi. In particolare, mi era sfuggita una sua pellicola pur molto nota, C’eravamo tanto amati, dove si trovano anticipati molti degli aspetti migliori della sua abilità di regista, su cui credo di essermi soffermato, altre volte, sul tipo di La terrazza e La famiglia,  e anche di prodotti squisiti e raffinati quali Il nuovo mondo e Ballando ballando, Merito suo, intanto, ricavare il meglio dagli attori chiamati in campo: per stare proprio a questo film, vi troviamo un eccellente Vittorio Gassman, che si trattiene dallo scivolare nei ruoli facili del Sorpasso o peggio ancora, del picarismo da strapazzo di Brancaleone e compagni. E’ già invece un anticipo del Gassmann migliore che vedremo più avanti, ma con la capacità di indossare i panni freddi e scomodi del cinico, che dopo qualche protesta più di facciata che di sostanza accetta di porsi al servizio di un malavitoso che ha tutta la forza di assumere i panni di un  Aldo Fabrizi, che anche lui evita i toni più macchiettistici per assumere la grinta del mafioso ben sicuro di sé, ma alla fine giocato, superato,  irriso proprio dalla durezza implacabile di Gianni, con la grinta dura, quasi metallica, di Gassman, E proprio per accettare le lusinghe del malavitoso trovato sulla sua strada, Gianni non esita a fare strame del primo amore che si presenta nella trama, nella persona di una eccellente Stefania Sandrelli, con quella sua recitazione da pecorella sacrificale, umile, suadente, ma anche con qualche artiglio da squadernare,  come una gatta pericolosa da accarezzare. E infatti appena lei capisce di quale tempra sia quel suo primo amante lo lascia senza esitazione, per affidarsi a un Nino Manfredi, che vola basso, appena come portantino sempre al limite del licenziamento, ma con tanta bontà d’animo e tolleranza e autentica cristiana pietas  che sono in lui. Il duro Gianni lascia la tenera Sandrelli da cui non gli può venire nulla di utile per accettare invece la figlia del boss, anche lei una eccellente Giovanna Ralli, che ha il torto di innamorarsi davvero di quel mascalzone, da lui ricambiata solo nella misura che la relazione entri nei suoi propositi di scalata al potere, che procede inesorabile, fino a spodestare il boss, cui però lo lega proprio quel rapporto di sopraffazione per cui i due non si possono abbandonare ma restano avvinti in un destino comune. La moglie malcapitata commette una sorta di suicidio comparendo poi da fantasma per rinfacciare al marito crudele e insensibile  tutti i suoi torti verso di lei, ed è questa scena fantomatica, a dimostrare che Scola partecipa proprio al clima surreale dei grandi registi sul tipo di Antonioni e Fellini. C’è pure l’intellettuale del gruppo, anche in questo caso un Satta Flores ben adatto  alla sua parte di intellettuale specialista proprio in storia del cinema, per cui anche lui trascura la famiglie. La sua presenza consente a Scola di introdurre nel suo film degli spezzoni, delle citazioni da programmi reali della TV, come il Rischiatutto di Mike Buongiorno. Il Terzetto degli eroi della vicenda si ritrova tanti anni dopo casualmente, mentre Gianni cerca di parcheggiare la sua auto lussuosa sotto gli occhi attoniti di Antonio, a cui per non umiliarlo si fa prendere per un povero  posteggiatore di auto in sosta, così godendo della solidarietà del povero Antonio. A dire il vero il film avrebbe dovuto finire qui, quando i tre si danno un appuntamento nel solito ristirante popolare dove in gioventù consumavano i loro poveri pasti, ma sferzante è il commento di Gianni, che prende congedo dal troppo conciliante Antonio-Manfredi con un cinico arrivederci tra cinquant’anni, ma poi cede al richiamo, e i tre ripetono davvero il rituale della cena in comune, salvo poi a scoprire che uno di loro vive in una villa lussuosa e ha fatto fortuna

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