Letteratura

Paolo Nori, che dispiacere questa prosa sconclusionata

Sono notoriamente alquanto avverso a una “Felsina narratrix”, con stroncature rivolte a Marcello Fois, alla Silvia Avallone, accoglienza non sempre favorevole al collettivo Wuming, giudizio altalenante rivolto a Carlo Lucarelli. Mentre ovviamente seguo con adesione i passi di Simona Vinci e di Grazia Verasani, intervenute ai felici incontri di RicercaRE ed entrate nell’antologia dei “Narrative invaders”, campione aureo di quella fortunata stagione. Un tale< destino propizio dovrebbe riguardare anche Paolo Nori, non per nulla intervenuto a quei raduni, entrato in quella rassegna, da me gratificato con un “pollice recto” a una delle sue prime prove, “Bassotuba non c’è”. Ma poi mi sono via via distaccato dalle sue cose successive, in quanto mi è sembrato adottare un comportamento strafottente, troppo propenso a irridere ogni sacro dogma, il che beninteso è più che giusto, è perfino un sacrosanto compito per chiunque si voglia iscrivere nelle file della sperimentazione, ma bisogna che il fuoco dato alle polveri sia davvero scattante e non sembri invece, come nel suo caso, cavato fuori in modi stentati, programmati. Insomma, non c’è una fiammella che si accende, ma il sapore di qualcosa di programmato, come nella morra cinese in cui il primo compito è di fare sempre la mossa che l’avversario, qui il lettore, non si aspetta. Nori, per adeguarsi a chi conduce un gioco simile al suo, dovrebbe studiare da vicino protagonisti come Stefano Benni, per stare in un ambito bolognese, o Francesco Piccolo, dove le polveri esplodono col giusto scatto. Nell’ultima sua fatica, “Che dispiacere”, Nori sfida addirittura le regole del “giallo”, il che sarebbe senza dubbio utile. Se oggi esiste uno stanco “main stream”, è proprio quello dato dalla schiera dei giallisti che coltivano sia il cartaceo che il televisivo, quindi qualche sberleffo lanciato contro di loro ci starebbe bene. Nori dichiara di aver preso le misure giuste, consultando due campioni di quel filone, come l’altro felsineo Lucarelli e Sandrone Dazieri, per avere da loro le giuste imbeccate. Non so come siano andate le cose, ma a mio avviso quei due corretti mestieranti del filone avrebbero dovuto ammonire il Nostro, fargli una qualche ramanzina, “così non si fa”, oppure dirgli, alla maniera di Gino Bartali, “gli è tutto sbagliato, tutto da rifare”. Naturalmente, in questa finta adesione alle regole del mestiere, Nori ci sbatte subito in prima pagina un cadavere, ma poi se ne scorda, o ci ritorno quasi casualmente, credendo appunto che faccia fino prendere a calci in faccia, o per il fondoschiena, le regole del mestiere, diluendo la trama in una serie di personaggi dalla effimera presenza, tanto da aver sentito il bisogno di darcene una lista. Personaggi che si confondono tra loro, quasi giocando a chi fa il ruolo del colpevole o invece quello del detective industrioso, si fa per dire, perché le rispettive condotte sono piene di errori, di buchi, di omissioni. Nori a sua difesa potrebbe accampare il ricorso a una lingua, che però segue lo stesso ritmo altalenante, tra correttezza e invece voci dialettali, influssi di un parlato diretto. Si sa che il nostro autore è uno studioso e traduttore della grande narrativa russa, forse qualche traccia di Gogol si può anche ricavare, ma forse meglio fare riferimento a un campione assoluto in tecniche omissive, del saltare di palo in frasca, come il Laurence Sterne di “Tristram Sandy”, Ma se questo è un possibile riferimento, diciamo che Nori ne è un erede in sedicesimo, dispersivo e inconcludente. Paolo Nori, Che dispiacere. Salani, pp. 241, euro 16.

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