Arte

Viva l’Impressionismo tedesco!

Confesso che questa mostra sugli Impressionisti Tedeschi avrei voluto curarla io, e ci ero andato vicino, in quanto era stata offerta al dittatore culturale di Bologna, Fabio Roversi Monaco, per la sua sede principale di Palazzo Fava, ma lui aveva temuto che riuscisse ingrata al pubblico felsineo, preferendo offrigli un prodotto più consacrato alle nostre tradizioni quale il Polittico Griffoni, di tutt’altra stagione. Perché gli Impressionisti Tedeschi? Rientra nelle mie profonde convinzioni che l’Europa, assai prima che nascesse l’UE, nei secoli è stata molto unita, per quanto riguarda la cultura e in particolate le arti visive, fino a includere quella che a lungo ne è stata solo un’appendice, per poi rovesciare i ruoli, cioè l’America, soprattutto del Nord. E dunque, è mio dogma che gli “ismi”, pur nati in qualche regione europea, siano stati condivisi da ogni altro Paese, quale più quale meno. A questa regola non ha fatto per nulla eccezione l’Impressionismo, con buona pace per chi crede che invece no, per questo movimento si debba riservare una specie di riservato dominio per la sola Francia, e in particolare per la sola Parigi e dintorni. A questo scopo, a cavallo di due anni inziali del nuovo secolo, 2001-2, avevo condotto a Brescia, Palazzo Martinengo, la mostra “Impressionismi in Europa”, con un sottotitolo ben più eloquente, “Non solo Francia”, dove appunto la colonia tedesca era la più nutrita, con momentanea esclusione dei nostri artisti, cui poi avevo dedicato nella medesima sede un “Impressionismo in Italia”. Che cosa osta a un simile allargamento d’orizzonte? Il ruolo eccessivo che si riserva al solo Claude Monet, fino a degenerare in “monettismo” a senso unico, con uno strano ribaltamento di valori. Quando, nei lontani ’50, ero un apprendista della critica si usava escludere l’autore delle Ninfee dal novero delle avanguardie, ritenendolo confinato nell’Ottocento, come è giusto che sia. Oggi invece, in clima recessivo, si è capovolto il giudizio, fino a innalzare proprio l’autore delle Ninfee a un ruolo massimo. Ci ha pensato, come è noto, il curatore Marco Goldin, che ha dedicato al Francese un culto esclusivo e parossistico, titillando gli umori più facili del vasto pubblico Che male c’è, nel seguire una simile tendenza? Che sembra scaturirne un codicillo per cui un impressionista autentico, un “monettiano”, non tratta troppo la figura umana, anzi la evita del tutto. Proprio in quella mostra ormai lontana io avevo coniato uno slogan che ritengo efficace, che cioè nelle tele monettiane suona un allarme atomico, e dunque i membri del consorzio umano scappano via spaventati, lasciando solo un panorama di prati, covoni, marine, falaises eccetera. Ma questo dipende solo da una imperizia, o allergia del pittore francese a trattare ritratti e simili. Se si facesse un dogma di questa esclusione, dovremmo espellere dall’Impressionismo, da quello considerato “buono” di marca monettiana, i Manet e i Degas, e anche i Renoir, e pure uno come Guillaume Caillebotte, che pur essendo finanziatore di Monet, dipinge una specie di monumento dedicato al lavoro umano, nei suoi “Confezionatori di parquet”. E il discorso si allarga anche ai cugini d’oltre Oceano, sono lieto che i dossier Giunti mi abbiano permesso di celebrare quei colossi yankee che si chiamano Winslow Homer, Thomas Eakins, e un “eroe dei due mondi” quale Whistler, Aggiungo ancora che, mosso da umori del genere, avevo deprecato che il Consiglio d’Europa avesse cessato di organizzare mostre onni-inclusive proprio sui movimenti che avevano garantito la nostra unità, come una rassegna sul Neoclassicismo che ne aveva assicurato il rilancio. Ora che c’è l’UE, di mostre del genere non se ne fanno più, mentre ci vorrebbe proprio una escussione sistematica di tutti gli Impressionismi. Ma al momento accontentiamoci di questa selezione, senza dubbio parziale, dato che viene da un solo museo, però ricca di validi campioni, soprattutto della nota fondamentale che caratterizza tutti gli Impressionismi europei “non monettiani”, cioè una brillante, consistente presenza degli esseri umani, rivolti a tutte le incombenze: il lavoro, la fatica, ma anche i momenti di distensione in osteria, della festa, dell’assistenza agli anziani. In tal modo ho caratterizzato la tematica del numero uno di una simile situazione, Max Liebermann, che nasce anche “giusto”, nel 1847, a poca distanza dal parametro che magari, quello sì, si può ancora mantenere, il 1840 della nascita di Monet. Rispetto al quale nascono “giusti” un Franz Lenbach, 1836 e un Hans Thoma, 1839, come si vede dai loro freschi paesaggi, pur sempre animati da qualche presenza umana, E’ assente un antesignano (1815!) come Adolf Menzel, cui invece nella mostra bresciana avevo innalzato un monumento, tanto che un recensore maligno mi aveva preso per i fondelli osservando che secondo la mia tesi l’Impressionismo sarebbe nato a Berlino, e non a Parigi. Poi, se si vuole, le acque si confondono, le generazioni si incrociano, e dunque i casi emergenti, in mostra e anche nella valutazione critica, di Lovis Corinth (1858) e soprattutto di Max Slevogt (1868) si caricano di riflessi quasi-simbolisti, o navigano già verso la tappa successiva della grandezza tedesca, l’Espressionismo. Comunque domina sempre la figura umana, servita in salse impetuose, rutilanti, emotive al massimo.
Impressionisti Tedeschi dal Landesmuseum di Hannover, a cura di Thomas Andratschke e Doris Jorioz, Aosta, Museo archeologico, fino al 25 ottobre. Cat. Silvana Editoriale.

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