Attualità

Pietroiusti: una felice autobiografia

Sono stato un sostenitore della cosiddetta Scuola di Piombino, composta da Salvatore Falci, Stefano Fontana e Pino Modica, cui si era aggiunto Cesare Pietroiusti, nonostante la sua nascita a Roma, parlando di loro già dalla fine degli anni ’80, quando apparvero in forze a Milano, presso la Galleria del Milione, ma solo perché sostenuti da un gallerista allora senza sede propria, Casoli, poi trasferitosi a Roma. Era un episodio appartenente a una infinita sequela di recuperi e rilanci. A metà di quel decennio era terminata una stagione propriamente citazionista dal passato e dal museo, sostituita da una ripresa da tendenze delle neoavanguardie anni ‘60, Pop, Minimalismo eccetera, fino a una sorta di neo-concettuale di cui i quattro erano brillanti protagonisti. Ebbi la fortuna di presentare la loro situazione alla Biennale di Venezia del 1990, quando ancora esisteva l’opportuna sezione dell’”Aperto” dedicata ai nuovi arrivati, poi sciaguratamente abolita, e io appunto ne avevo approfittato per segnalare tutta questa nuova ondata, a cominciare dal grande Jeff Koons, comparso presso di noi per la prima volta in quell’occasione. E c’era pure un ultimo testimone dei Nuovi-nuovi, Pino Salvatori, e oltre a lui, i principali esponenti del neo-minimalismo nostrano, da Stefano Arienti a Umberto Cavenago, e ancora i Nuovi Futuristi, come il trio Plumcake, non ancora divisi in due tronconi, e Gianantonio Abate. E poi, c’erano tre su quattro dei membri della Scuola di Piombino, non Fontana per la semplice ragione che qualcuno lo aveva già invitato in una edizione precedente, ma gli altri sì. In seguito il più assiduo e coerente è stato senza dubbio Pietroiusti, ma pure Falci proprio in questi giorni è ritornato in scena col gallerista di allora, Casoli. Però questa è l’ora di tessere l’elogio di Cesare, che ha organizzato al MAMbo di Bologna una rassegna di grande originalità e completezza. Si trattasse di un narratore, si dovrebbe parlare di un suo ricorso a un modello oggi molto frequentato, quello della “autofiction”, una specie di autobiografia, che nel suo caso risale fino ai primi anni di vita, affidata a ogni sorra di documenti, anche di archivio, di storia familiare, come sarebbero le pagelle scolastiche, le letterine scritte per Natale ai parenti, i primi oggetti acquisiti, radioline, matite per disegnare, e così via, una selva di oggetti tra cui infine compaiono pure le prove di carattere artistico, ma per nulla premiate, anzi, abbassate a un livello di prestazione comune. Al punto che se un rimprovero devo fare a una simile rassegna, è proprio di aver escluso quelle che mi erano apparse allora come le più brillanti opere realizzate da Cesare, pur sempre nel nome della promozione di oggetti banali, anzi, di scarto della vita comune, come sarebbero certi brandelli di carta da noi buttati via, cestinati, ma da lui invece scupolosamente salvati, ingigantiti e rifatti con materiali solidi. Resta comunque una affascinante partita come di ping pong, dentro e fuori dell’arte. A dire il vero, questa ha i polmoni robusti, e sarebbe pronta a suggerire un termine adatto a coprire tanta larghezza di modi. Infatti, proprio nella stagione del concettuale era comparsa la cosiddetta Narrative Art. Ebbene, ci siamo, questa etichetta si sposa perfettamente al carattere autobiografico di cui ho detto subito all’inizio del presente esame, riconoscendo il particolare rigore totalizzante messo da Pitroiusti in quest’impresa. Ma ci sono pure le differenze, in quanto la Narrative Art non pretendeva affatto che l’artista di turno si confessasse, anzi, al contrario, i brani narrativi per lo più erano inventati, avevano un carattere paradossale, inoltre venivano congelati, messi alla sbarra, per poter venire appaiati a dichiarazioni verbali o a interventi visivi che a loro volta si facevano un punto d’onore di mancare all’incontro, di sparare fuori. Campione assoluto di un simile modo di procedere è stata, ed è ancora la francese Sophie Calle, che molte volte irrita proprio per il carattere gelido, astratto, quasi disumano con cui sciorina i suoi reperti, anche se si tratta di parlare della morte di qualche parente stretto. Invece in questa lunga narrazione di Cesare piace, affascina proprio il carattere vissuto, personalizzato al massimo con cui queste “disiectae membra” ci vengono servite, con un piacevole gioco di sponda, rimbalzando cioè da un versante all’altro del polistilismo che oggi è concesso all’arte. Siamo insomma a un museo eretto a memoria di se stesso, dove però anche il visitatore comune si può riconoscere ad ogni passo, riuscire a partecipare, a prendersi una parte di divertimento, o di emozione. Direi che ad ogni artista di oggi dovrebbe spettare il compito di organizzare una simile parata, una storia fedele del proprio vissuto, una prestazione nascente dal nulla o dal tutto pieno di un’intera esistenza.
Cesare Pietroiusti, Un certo numero di cose 1955-2019. a cura di Lorenzo Balbi, MAMbo, fino al 6 gennaio.

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