Arte

Una mostra al MAMbo conferma il “glocalismo”

Il MAMbo presenta, a cura del Direttore Lorenzo Balbi, assistito da Sabrina Samorì, una mostra ben assortita di sette artisti provenienti da vari Paesi, quasi a dimostrazione che viviamo in pieno la stagione detta di “glocalismo”, caratterizzata dal ricorso a una serie di strumenti comuni che però ogni artista rivolge a riscattare caratteri della propria cultura. Non direi però che ciò avviene, come dice il titolo della rassegna, “AGAINandAGAINandAGAIN”, nel nome di un riciclaggio o di citazione di cose già viste, penso che sarebbe stato meglio insistere per esempio su un “Anywhere”, proprio per indicare una simile diffusione di soluzioni, in una piacevole varietà. Tanto per cominciare, incontriamo subito nella prima stanza il greco Apostolos Georgiou, un notevole rappresentane del ritorno della Vecchia Signora Pittura cui stiamo assistendo, onorata da rappresentanti come lo statunitense Alex Katz e l’inglese David Hockney, e in fondo io stesso, nella mia modesta ripresa dell’atto del dipingere, mi potrei iscrivere, non da ultimo ma da postremo, in questa tribù. Ma non si tratta di “citare” fantasmi del passato, o quanto meno il nostro Georgiou si limita a una rivisitazione circolare di tanti stili genericamente attribuibili a un postimpressionismo, o neo-espressionismo. Una specie di passerella finale in cui tanti stili emergono e si danno la mano, senza poterne far emergere uno in particolare. Ricordo in proposito la mia persona difficoltà a rispondere quando mi si chiede se nel mio rilancio di pittura sono un neo-fauve, o un De Pisis rinato e così via, senza saper trovare la risposta giusta. Allo stesso modo il nostro Apostolos pratica una sintesi di vari approcci, con larghezza di mano e di dimensioni, sfidando il comportamento, con figure sommarie che si agitano in scena, ben sagomate, fissate con scioltezza e rapidità di impressione. All’interno si presenta subito lo statunitense Ad Atkins, che si vale di uno degli strumenti più avanzati, proprio quelli che potrebbero relegare in pensione la vecchia Signora, cioè la videoarte, ma lo fa in maniera originale e impressionante, simulando quello che ci capita quando siamo al controllo delle nostre persone per un volo aereo, e dobbiamo disfarci di indumenti, cinture, scarpe. Atkins va ben oltre, in quanto il suo soggetto si libera di pezzi del corpo, una mano, un avambraccio, addirittura la massa cerebrale, riponendoli con cura nelle apposite vaschette, evocando un horror da bassa macelleria, ma sterilizzato per la lucidità dei singoli spezzoni. Proseguendo in una stanza accanto, ecco i begli esiti dell’unico italiano della compagnia, Luca Francesconi, che si avvale di una serie di supporti agili, slanciati, già essi stessi frutto di brillanti invenzioni plastiche, come degli steli raffinati e arborescenti, che reggono ai loro estremi dei frutti della terra, ortaggi, frutta, pesci, in un gesto di omaggio al cibo di cui dovremmo nutrirci. In un ampio palcoscenico che chiude l’enorme spazio a pianterreno della Galleria l’inglese Cally Spooner espone i fantasmi elettronici di alcuni danzatori impegnati in una “street dance” dalle mosse ardite quanto banali, prosaiche nella loro immediatezza. E se visitiamo il sito su Google, scopriamo che la Spooner è solita affidarsi anche a violente emissioni sonore come omaggio totale alla gestualità più piena e coinvolgente. Devo dire che invece non mi ha soddisfatto molto la pesante, ingombrante installazione dell’islandese Ragnar Kjartansson, posta a occupare il centro dell’enorme salone, giocando la carta del “vero più vero del vero”, come del resto hanno già fatto altri, penso per esempio al fiammingo Guillaume Bijl che ho invitato a una delle mie “Officine”. E’ una carta che sfrutta la vertigine insita in un recupero delle “cose stesse”, ma ci vorrebbe in ciò un qualche aggancio sull’attualità, diversamente sembra di assistere alla diligente preparazione di un set cinematografico o televisivo per girare un film in panni storici o folclorici. Confesso che mi sono sfuggite le altre due presenze, valide però a completare il giro d’orizzonte planetario di questa intrigante proposta.
Fino al 3 maggio 2020.

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