Arte

Una mostra intelligente costruita attorno a Emilio Mazzoli

Il Comune di Modena dedica un intelligente e opportuno omaggio alla figura del Gallerista Emilio Mazzoli, che assieme ad altri colleghi di pari statura, quali Gian Enzo Sperone, Fabio Sargentini, Massimo Minini, Franco Toselli ha abilmente guidato la nave dell’arte nostrana a crescere e a confluire nella scena internazionale. In proposito mi viene in mente lo spot pubblicitario: “Una Banca costruita attorno a te”, ebbene, si può dire allo stesso modo che l’attuale rassegna di cui vado a parlare è stata costruita attorno alle scelte operate da Mazzoli sul filo dei decenni, trovando loro una giusta collocazione in uno dei soliti contenitori di archeologia industriale che sembrano fatti apposta per accogliere le opere del contemporaneo. In questo caso si tratta del MaTa, di una ex-Manifattura Tabacchi sorgente nei pressi della stazione ferroviaria, che surroga abbondantemente gli spazi precedenti di cui il Comune di Modena disponeva, la civettuola ma limitata Palazzina dei Giardini e gli stanzoni insufficienti contigui alla Biblioteca municipale. Mazzoli a sua volta ha scelto un’anima gemella, trovandola in uno spirito libero e anticonformista, Richard Milazzo, di famiglia originaria italiana, ma di nascita e collocazione per intero nella Grande Mela, di cui conosce ogni segreto, e dunque tra i due si è realizzato un efficiente dialogo attraverso l’Atlantico. Si aggiunga che Milazzo è un “curator” affatto sui generis, appartiene piuttosto alla categoria oggi desueta dei letterati, in particolare dei poeti che si applicano felicemente all’arte. Milazzo scrive poesie da dirsi post-ermetiche, tra Eliot e Ungaretti, e mette la sua perizia linguistica ed esperienza di profondo conoscitore appunto al servizio dell’arte, rovesciando le magre caratteristiche che oggi reggono la pratica della “curatorship” e che tanto affascinano i giovani, come, ahimé, ha dimostrato il convegno promosso dal Pecci a Prato che proprio oggi si chiude. Tra le regole auree di questa muta affamata di curatori in erba c’è anche la regola: scrivi poco, per non comprometterti. Invece il nostro Milazzo rovescia questa procedura, nel catalogo della mostra compaiono ampi medaglioni per ciascuno dei 48 artisti presenti, in ciascuno dei quali viene fatta la storia delle relazioni intrettenute dallo scrivente col singolo, e anche una acuta riflessione su come ciascuno di loro possa entrare in una sinfonia d’insieme, mentre le immagini dal canto loro sono piccole e vengono quasi a rimorchio. Insomma, Milazzo è figura volutamente ambigua ha un piede nelle pratiche curatoriali in cui è del tutto preparato, ma appare anche pronto ad affrontarle con ironia e senso di distanza. A cominciare dal titolo, infatti il “Manichino della storia” menzionato corrisponde a quanto ci offre uno dei cartoni che Goya realizzava in vista della loro traduzione in arazzi per le stanze reali, in questo si vede appunto un manichino di pezza che viene scagliato in su e in giù da un gruppetto di giovinastri. Quel pupazzo è l’arte dei nostri giorni, che si vede sottoposta, per dirla col sottotitolo della mostra e del catalogo, alle “Fabbricazioni della critica e della cultura”, cioè a un gioco di astute manovre tra il curatoriale e il mercantile da cui Milazzo si chiama fuori, ma non del tutto, infatti deve pur riconoscere che anche lui ne fa parte, ma disposto a rimediare, proprio tuffandosi in un proficuo impegno a ragionare, discutere, collocare, che viceversa è quanto certi suoi colleghi evitano per non pagar dazio.
Ma veniamo finalmente alla mostra, che si presenta come tipica “antologia”, infatti le pareti del MaTa, per quanto estese, non possono concedere il più delle volte più di un’opera a testa dei 48 convocati, e dunque si procede per sommi capi, ovvero un fenomenologo degli stili come me potrebbe lamentare che non viene disegnata la filigrana dei movimenti essenziali, e che vengono falcidiate tante figure intermedie, dando ospitalità solo ai primi della classe. Ma lo spettacolo, proprio in virtù di questi limiti dichiarati, è godibile e stimolante. Facendo un minimo riferimento al manuale storico-artistico dell’attualità, diciamo che la mostra entra in cronaca diretta verso la metà degli anni Settanta. Mazzoli non ha fatto a tempo a sintonizzarsi sull’Arte povera e movimenti internazionali equipollenti, ma è balzato in campo al momento del rimbalzo, della mode rétro, di cui è stato il principale conduttore attraverso i cinque esponenti della Transavanguardia, che qui, pertanto, compaiono al completo (Chia, Clemente, Cucchi, Paladino, De Maria), ora però ha allargato la sua attenzione fino a comprendere gli alfieri della situazione di segno opposta da me allora introdotta, ovvero dei Nuovi-nuovi, nelle persone di Ontani e di Salvo, quest’ultimo, purtroppo, scomparso di recente, provocando un compianto in cui Mazzoli e io ci siamo trovati associati. Magari qui un pignolo come me potrebbe lamentare la mancata inclusione degli Anacronisti, per esempio attraverso Carlo Maria Mariani, o di altri Nuovi-nuovi, come Luigi Mainolfi, ma l’antologia impone i suoi diritti. Ci sono pochi passi indietro, rispetto a questo confine cronologico, che recuperano un Mario Schifano sempre caro a Mazzoli, e anche qui ovviamente si potrebbe lamentare l’assenza di altri Pop nostrani. C’è un giusto recupero di Franco Vaccari, che ha continuato imperterrito a testimoniare la sua fedeltà a pratiche di ordine concettuale, e un particolare omaggio, fino alla copertina del catalogo, è rivolto a De Dominicis, ripreso nel momento in cui ha riscoperto i valori della pittura e dell’immagine, ma sempre avvolte nelle tenebre del mistero. E poi, in piena coerenza con questa linea di partenza, ci sono altri pochi testimoni del postmoderno o della svolta rétro in Germania, con Kiefer, ma soprattutto negli USA, e dunque Robert Longo, David Salle, Julian Schnabel, Poi ancora il tiro si allunga e si viene al superamento della fase revivalista-neoespressionista quando si riaffaccia un clima Pop ma ormai fuso col kitsch, con l’elogio del futile e del marginale, attraverso gli apostoli di questo atteggiamento che sono Jeff Koons, Haim Steinbach, Peter Halley. Peccato che non ci si ricordi anche di un pimpante europeo loro dirimpettaio come il fiammingo Wim Delvoye. E poi ancora c’è una essenziale testimonianza del graffitismo, attraverso Basquiat e Haring, e una buona schiera di testimoni del “posthuman” quali Cindy Sherman e Kiki Smith, o del chiudersi nella guardia a un tempo stretta a livello tecnico ma vorace nei temi del ricorso alla fotografia, da Nan Goldin a Serrano (da lamentare l’assenza di David Lachapelle), e non manca neppure una pattuglia a dire il vero assai ristretta di extra-occidentali, il giapponese Murakami, il cinese Cheng Zen, l’iraniana Neshat. Ma inutile lamentare i vuoti, conta la scrematura, l’antologia, rivolte soprattutto a rendere onore a un operatore locale che ha saputo collegarsi al volto globale dell’intero pianeta, innestandolo in buona sintesi sui nostri valori locali e così dimostrandosi paladino del “glocalismo”.
The Mannequin of History, a cura di Richard Milazzo, Modena, ex-Manifattura Tabacchi, fino al 31 gennaio, cat. Panini.

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