Le visite virtuali di questa domenica vanno a due artisti che peraltro ho frequentato de visu ed esposto in passato. Sono l’olandese Lily van der Stokker (1954) e il nostrano Alessandro Moreschini (1966). La prima è un punto di forza dell’ottima Galleria milanese Kaufmann Repetto, presso cui ammiro ad ogni loro uscita Gianni Caravaggio e Pierpaolo Campanini. Moreschini ora espone nella maestosa Rocca di Vignola. Sono entrambi legati a un aspetto di lunga portata nella mia storia, si deve risalire addirittura allo scarso favore con cui, da buon seguace del materialismo tecnologico, ho da sempre nutrito verso la fase legata alle macchine mosse dall’energia termica, pur riconoscendone l’inevitabilità, per esempio quando ci hanno dato un movimento di punta del Novecento quale il Cubismo, in cui Picasso e Compagni, ho detto fino alla noia, altro non hanno fatto se non mutarsi in carrozzieri delle cose comuni, oggetti, paesaggi, persone, seguiti a ruota dai nostri Futuristi, che però, con Marinetti e Boccioni, sono stati capaci di innestare pure una marcia in più, avendo intuito che c’era posto anche per le energie di origine elettromagnetica, dalla radio ai raggi x. Quel clima meccanomorfo, “hard”, duro al massimo, ha avuto uno dei suoi sfoci nel famigerato detto dell’architetto Loos, pronubo del Bauhaus di Gropius, secondo cui l’ornamento è un delitto, Ma prima, e anche subito dopo, c’erano state le fasi “soft” in cui l’ornamento al contrario era avvertito come un bisogno quasi fisiologico, vedi il Liberty, o il Simbolismo in genere, con cui ho fatto le mie prime prove di storico dell’arte, seguito a ruota dall’Art Déco. Poi, certo, una lunga assenza, fino agli anni ’70 e al loro ritorno a forme d’arte “deboli”, fra cui proprio la decorazione, rinata sotto l’etichetta del “Pattern Painting” nella squadra gestita a New York da Holly Solomon, con una consistente sponda tra i miei “Nuovi-nuovi”, in cui infatti ho sempre distinto con cura un versante di Aniconici. Oggi poi, se si pensa al fenomeno dominante incentrato sul “glocalismo”, rispunta da ogni parte il gusto per l’arabesco o per altre forme ornamentali, che sono così connaturate con la cultura visiva di aree estranee al nostro severo e dogmatico Occidente. Ora c’è pure in merito un’ampia rassegna alla Fondazione Magnani di Reggio Emilia, con un titolo appropriato che inneggia, sotto la guida di Claudio Franzoni e di Pierluca Nardoni, a un “Wonderful World”. Ma tornando ai due artisti qui segnalati, la brava olandese entrava già nella mia “Officina Europa” (1999) con i suoi delicati motivi floreali che, come bolle di sapone leggere e aeree, vanno a incistarsi sulle pareti, o avvolgono come dentro preziosi manicotti, il mobilio di qualche stanza. Con lei è proprio il rilancio di un florealismo alleato all’ambientalismo, una delle istanze dominanti dei nostri giorni. Quanto a Moreschini, ancora prima egli entrava nella mia Officina iniziale, quella del ‘97, dedicata a protagonisti italiani, quando a dire il vero questo rivolo di decorativismo appariva alquanto acerbo, quasi invisibile, ma l’artista bolognese ne ricavava come un pulviscolo, una preziosa limatura di ferro, di cui aspergeva abbondantemente gli utensili del nostro cosmo domestico, dotandoli quindi di una luminescenza, di un potere irradiante, che è poi l’operazione che continua a svolgere anche in questa sua comparsa a Vignola, in cui, in inconsapevole, suppongo, accordo con l’olandese “volante” frequenta anche lui con sicurezza una dimensione ambientale.